Anniversario dell’incidente di Mukden, sale la tensione tra Cina e Giappone

ROMA – Sale la tensione tra Cina e Giappone per la sovranità territoriale sulle isole Diaoyu/Senkaku. Nella giornata di martedì grandi società nipponiche hanno chiuso centinaia di negozi e impianti, mentre l’ambasciata giapponese a Pechino ha sospeso i suoi servizi in seguito al degenerare delle proteste cinesi  contro Tokyo.

Lo sbarco di due nazionalisti giapponesi su uno degli atolli contesi -come riferito dalla guardia costiera- rischia di alzare la temperatura nell’area già pattugliata da navi di entrambi i paesi. Nella giornata di ieri una flottiglia di 1.000 pescherecci cinesi ha preso il largo verso le acque agitate; non è chiaro quante imbarcazioni abbiano realmente raggiunto le isole, riporta la Reuters, ma crescono di ora in ora i timori per uno scontro diretto tra i due giganti asiatici.

Nei giorni scorsi migliaia di manifestanti sono scesi in strada per protestare contro l’annuncio rilasciato dal governo di Tokyo circa l’acquisto di tre delle cinque isole dell’arcipelago da una famiglia giapponese che ne detiene il diritto di sfruttamento. Lo scorso 10 settembre, il segretario di gabinetto Osama Fujimura, ha dato la conferma: “Si tratta solo di un cambio di proprietà della terra, che appartiene al Giappone, da un privato allo Stato, e ciò non dovrebbe causare problemi con altri Paesi. Non vogliamo che la questione delle Senkaku interferisca coi rapporti sino-giapponesi”.

Orgoglio nazionalista e sentimenti anti-giapponesi dilagano in tutta la Cina, prendendo di mira attività commerciali e fabbriche del Sol Levante. Quasi un centinaio le città del Paese di Mezzo in cui la rabbia contro Tokyo ha raggiunto il livello di guardia, con lancio di oggetti e atti vandalici ai danni di veicoli di marca giapponese. Aziende produttrici di auto, come la Toyoto Motor Co. e la Honda Motor Co. hanno chiuso i battenti, sospendendo le operazioni. Stessa sorte per Mazda, Mitsubishi Motors e Panasonic, con esiti allarmanti, secondo l’agenzia di rating Fitch, per la quale la situazione potrebbe compromettere la capacità di credito di diverse case automobilistiche e giganti dell’hi-tech. La Hitachi ha invitato 25 dipendenti tornare in patria a causa dei disordini, mentre Uniqlo, leader dell’abbigliamento che possiede 145 punti vendita nel Paese di Mezzo, ha sbarrato le porte di circa un quarto dei suoi negozi.

La reazione delle forze dell’ordine cinesi è stata da più parti considerata sottotono tanto che, secondo quanto dichiarato alla Reuters dall’artista-dissidente Ai Weiwei, le proteste avrebbero ricevuto l’approvazione della polizia. Sulla rete Internet dilagano illazioni circa una possibile complicità delle autorità di Pechino, intente a fomentare l’orgoglio nazionalista con lo scopo di dirottare l’attenzione pubblica dagli ultimi scandali politici, giunti a ridosso del XVII Congresso del Partito che il mese prossimo sancirà il ricambio al vertice.

Proprio martedì ricorre l’anniversario dell’incidente di Mukden, che nel 1931 diede il via all’occupazione  della Manciuria da parte del Giappone. Ritratti di Mao Zedong e striscioni contro Tokyo riempiono le piazze di tutta la Cina, mentre ancora oggi la polizia antisommossa ha circondato la sede diplomatica giapponese a Pechino. “Il Giappone è un cane degli americani” recita uno degli slogan apparsi nella città meridionale di Canton.

Le proteste in chiave anti-giapponese hanno raggiunto il picco più alto proprio in concomitanza con la visita in Asia del Segretario alla Difesa americano, Leon Panetta. Panetta ha affermato la neutralità di Washington nella disputa territoriale tra i due cugini asiatici e ha invitato alla “calma e alla moderazione” per evitare un’ulteriore escalation. Mercoledì il Segretario della Difesa Usa incontrerà il vicepresidente e leader in pectore Xi Jinping, riapparso sabato dopo una misteriosa sparizione dalla scena pubblica durata due settimane.

Ma mentre la diplomazia cinese, per bocca del ministro della Difesa Liang Guanglie, tenta di rilassare i toni, la stampa d’oltre Muraglia sembra essere meno accondiscendente. Mentre lunedì un editoriale del Global Times, spin-off in lingua inglese del People’s Daily, ha condannato ogni forma di manifestazione violenta, le testate in caratteri sciorinano una retorica dai toni belligeranti. Per il Quotidiano del popolo “Tokyo non si è sinceramente pentito del suo passato di guerre, invasioni e colonialismo” e la Cina è pronta a combattere, sia che si tratti di una guerra lampo che di un conflitto di lunga durata.

Quella per le Diaoyu/Senkaku, Eldorado di risorse naturali ed energetiche situato nel Mar Cinese Orientale, è una contesa che si protrae da due anni. Nel 2010 la collisione tra un peschereccio cinese e una nave della guardia costiera giapponese aveva portato le relazioni tra i due paesi al minimo storico. Con un comunicato ufficiale dal titolo “Considerazioni fondamentali riguardanti la sovranità territoriale sulle isole Senkaku”, lo scorso agosto il Ministero degli Esteri giapponese ha ribadito l’annessione degli atolli al territorio nipponico dal 14 gennaio del 1895. Una serie di indagini in loco avrebbe confermato che “non solo l’arcipelago era disabitato, ma non esistevano nemmeno segni della dominazione cinese”. Formalmente il Giappone si appropriò di una terra nullius, incorporandola all’amministrazione di Okinawa senza che il Dragone opponesse resistenza né presentasse alcuna rivendicazione ufficiale. Ma se Tokyo avanza i suoi diritti sulle isole in virtù del Trattato di Shimonoseki stilato al termine della prima guerra sino-giapponese, per Pechino questo è nullo come tutti i trattati ineguali firmati nel diciannovesimo secolo sotto l’incalzare delle potenze straniere.

A complicare ulteriormente la disputa si inserisco le rivendicazioni della Repubblica di Cina, della quale il governo cinese disconosce l’indipendenza e considera parte integrante del territorio nazionale. Nel 1944, infatti, un tribunale giapponese riconobbe le Senkaku come appartenenti a Taiwan, al tempo ancora sotto l’egemonia nipponica. Con il Trattato di San Francisco del 1951, con il quale cominciò il protettorato degli Stati Uniti sul Giappone,- ma che d’altra parte non venne firmato né dalla Repubblica popolare né da Tokyo- Washington continuò ad occupare diverse isole tra cui proprio l’arcipelago in questione. Sino al 1972, quando Okinawa e i territori circostanti passarono nuovamente al Sol Levante.

Intanto nella giornata di ieri il Segretario alla Difesa americano in visita a Tokyo ha messo le cose in chiaro, qualora la situazione dovesse degenerare in un conflitto armato: il trattato di reciproca difesa tra Stati Uniti e Giappone copre anche le Diaoyu/Senkaku.

 

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