In Asia orientale si gioca futuro del mondo

ROMA – Se c’è una regione nella quale si decidono i destini del mondo, questa è l’Asia orientale. Tutti i principali attori politico-militari del pianeta, infatti, si affacciano sull’Oceano Pacifico, un tempo considerato dalla dottrina strategica Usa il ‘Lago americano’ e oggi spazio contendibile della geopolitica globale. 

Oggi il presidente cinese Xi Jinping incontra a Mar-a-Lago, il resort di Donald Trump, il nuovo presidente degli Stati uniti per la prima volta: un difficile summit nel quale saranno toccati i principali temi di sicurezza ed economici di quella parte cruciale di mondo. Cina, Stati uniti, Russia, Giappone: giganti demografici, economici, militari che svolgono una partita nella quale, però, non tutte le pedine si assoggettano e, anzi, talvolta sfuggono apertamente al controllo dei giocatori. Ma più che a scacchi, sembra che ci si applichino nel ‘go’, l’antico gioco di strategia cinese il cui obiettivo è occupare i punti strategici del ‘goban’, la scacchiera. 

COREA DEL NORD Storicamente uno dei punti più strategici del ‘goban’ asiatico è la Penisola coreana. Lasciata divisa in due dalla Seconda guerra mondiale, quest’appendice dell’Eurasia – una specie di ponte naturale tra Cina e Giappone – ha registrato una sempre crescente divaricazione tra la sua metà settentrionale, che nel dopoguerra finì in orbita comunista, e quella meridionale, alleata degli Stati uniti. Mentre la Corea del Sud ha seguito una traiettoria anche sanguinosa, che l’ha tuttavia portata alla fine a diventare una democrazia (pur con tutti i suoi limiti come dimostra la crisi politica attualmente in corso a Seoul), la Corea del Nord è rimasta intrappolata nella Guerra fredda e nel dominio di una dinastia, quella iniziata da Kim Il Sung e arrivata alla terza generazione con Kim Jong Un. 

Questa ha individuato nel controllo totalitario della popolazione e nella sua mobilitazione nei confronti del nemico esterno (il Sud, il Giappone e soprattutto l’America) gli strumenti più efficaci per mantenere il potere. Per questo motivo ha perseguito una strategia di provocazione e di armamento atomico, che rappresenta il maggiore elemento d’instabilità per la regione. Con cinque test nucleari effettuati e innumerevoli test balistici, l’ultimo dei quali ieri come un virtuale messaggio a Xi e Trump alla vigilia del summit odierno, ha messo in allarme tutte le potenze della regione, compreso il suo storico alleato cinese, sempre meno soddisfatto del riottoso vicino che non appare particolarmente sensibile agli appelli alla prudenza. 

Questa strategia, che in passato ha consentito a Pyongyang di ottenere aiuti e vantaggi costringendo i suoi avversari e partner a sedere a tavoli di negoziato, da qualche anno contribuisce piuttosto a incrementare la tensione. Sebbene la politica delle sanzioni non abbia portato a una caduta del regime, pure la Corea del Nord ha visto stringersi i margini di trattativa. Le ricorrenti esercitazioni militari congiunte sudcoreane e americane al suo confine rappresentano un continuo memento per il regime di Pyongyang e un gioco di rilanci particolarmente pericoloso. A peggiorare la situazione è arrivato l’avvio dei lavori d’installazione in Corea del Sud del THAAD, il sistema antimissilistico Usa che, a dire di Washington, serve a garantire la sicurezza sudcoreana rispetto ad attacchi missilistici del Nord. La Cina, che vede nel THAAD una minaccia per gli equilibri nucleari della regione, ha tutto l’interesse a disinnescare la mina Kim Jong Un, riportando tutti gli attori al tavolo dei negoziati. Finora non c’è riuscita. 

LA CINA E IL MARE Se Pechino fa il pompiere nella questione nordcoreana, ben diverso è il ruolo che assume quando guardiamo all’ascesa della sua presenza nei mari e alle sue crescenti azioni per rendere un fatto compiuto l’annessione di aree marittime la cui sovranità è da lungo tempo contesa. Probabilmente la situazione più incendiaria è quella del Mar cinese meridionale. 

Pechino rivendica la sovranità su qualcosa come l’80 per cento di questa porzione del Pacifico, andando a incrociare analoghe pretese da parte di diversi Paesi della regione: Vietnam, Indonesia, Malaysia, Brunei, Taiwan, Filippine. Oltre alla presenza accresciuta delle sue navi – per inciso la Cina ha fortemente aumentato la sua spesa militare, con una particolare attenzione alla Marina -, Pechino s’è impegnata nella costruzione di isole artificiali. 

Questo ha portato a un deterioramento delle relazioni sia con i Paesi della regione, sia con gli Stati uniti che, innalzando la bandiera della ‘libertà di navigazione’, hanno a loro volta aumentato la loro presenza nell’area. L’altra rivendicazione marittima che potrebbe aprire scenari di conflitto è quella che oppone Pechino al Giappone, in un richiamo di più antichi conflitti che hanno segnato la storia dell’Asia nordorientale. 

Oggetto del contendere sono piccole isolette, apparentemente poco rilevanti, ma importanti sia per il loro simbolismo sia perché i fondali dei mari circostanti paiono conservare ingenti risorse energetiche: le Senkaku (o Diaoyu come le chiamano i cinesi). I due giganti asiatici si guardano da vicino, spesso le loro navi arrivano quasi a contatto. E sebbene non vi sia mai stato uno scontro armato, il rischio d’incidenti è particolarmente elevato. 

TAIWAN Tuttavia la questione territoriale più rilevante, per Pechino, è soprattutto quella di Taiwan. L’isola che fu occupata nel 1949 dalle forze nazionaliste del generalissimo Chiang Kai-shek, in fuga dal trionfo del rivale comunista Mao Zedong, è l’unico pezzo di territorio che Pechino considera parte integrante del Paese ma che sfugge ancora al suo controllo, dopo la restituzione delle ex colonie Macao e Hong Kong. Nonostante le centinaia di missili puntati, le tensioni continue e il mancato riconoscimento reciproco, negli ultimi otto anni sembrava esserci stato un riavvicinamento delle posizioni. 

Ma la vittoria elettorale di Tsai Ing-wen a Taipei, una leader vicina a posizioni indipendentiste, ha provocato un nuovo raffreddamento. A peggiorare la situazione è arrivato alla Casa bianca Donald Trump, che tra i suoi primi atti ha accettato la telefonata di congratulazioni di Tsai e ha ventilato l’ipotesi di mettere in discussione la politica dell'”Unica Cina”, cioè la dottrina in base alla quale tutte le parti considerano la Cina un’entità unica, senza meglio precisare ‘quale’ sia l’unica Cina. Pechino, che ha vissuto l’arrivo al potere di Trump con le sue minacce sul fronte commerciale come un vero problema, ha reagito con forza alle dichiarazioni del miliardario americano, che in seguito ha fatto marcia indietro ricevendo una telefonata di congratulazioni da parte di Xi dopo la sua elezione. Comunque Taiwan resta nel menù del vertice di Mar-a-Lago. 

LA CINA E I CONFLITTI INTERNI Quello cinese è un impero universalistico, la cui base non è un’etnìa, ma un contesto storico-culturale. Questo lo porta a essere inclusivo, multietnico e multireligioso (sempre che si riconosca la primazìa dello Stato). Ma non sempre la convivenza è facile. Non mancano tensioni interne. 

Oltre all’annoso caso del Tibet, che però Pechino tende sempre più a integrare attraverso un mix di rigido controllo politico e grandi investimenti economici, resta ancora aperto il dossier della minoranza uigura del Xinjiang (nella parte nordoccidentale del Paese), di fede musulmana. Il potere di Pechino si scontra con militanti che non esitano a ricorrere allo strumento del terrorismo per sostenere la causa indipendentista. 

IL GIAPPONE Vivere in un ambiente così pericoloso non può non avere un effetto anche sul Giappone, un Paese la cui popolazione si è abituata ai vantaggi della pace dopo la devastante sconfitta della seconda guerra mondiale, conclusa coi bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki. Il Sol levante si sente meno sicuro di un tempo della protezione americana, anche alla luce della politica estera di Trump che fa temere una svolta isolazionista. Le voci nazionaliste si fanno sempre più udibili e lo stesso primo ministro Shinzo Abe, un uomo che viene dal Partito liberaldemocratico che per decenni ha governato con una certa moderazione il Paese, se ne fa spesso portavoce. 

Un sentimento vagamente revanchista rispetto al passato, incarnato dalle crescenti visite di ministri ed esponenti politici al santuario nazionalista Yasukuni di Tokyo, prende sempre più corpo. A denunciarlo è arrivato nei giorni scorsi anche il grande scrittore Haruki Murakami, che ha lanciato un appello a fermare il revisionismo storico. Il governo interpreta questa temperie anche attraverso una spinta volta a rivedere la Costituzione (scritta dagli americani) in senso meno pacifista. 

Lo scorso anno è stata approvata una nuova interpretazione del dettato costituzionale che consente l’intervento (anche all’estero) delle Forze di autodifesa sulla base della nozione di difesa collettiva: se un alleato (gli Stati uniti) viene attaccato, le forze giapponesi possono intervenire. Ma l’obiettivo finale è una riforma dell’Articolo 9 della Costituzione, che nella sua versione letterale non consente di avere un esercito e comunque limita fortemente il campo d’azione delle Forze di autodifesa. 

Un eventuale ritorno del Giappone sul palcoscenico delle potenze militari (ed eventualmente di quelle nucleari), certamente, non verrebbe accolto dai vicini, e soprattutto dalla Cina, con benevolenza. Le scintille non mancherebbero e, in poco, potrebbero trasformarsi in un incendio. La partita di go potrebbe finire in rissa. 

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