La condanna a morte di Wu Ying scuote la Cina

PECHINO (corrispondente) – Aveva solo 26 anni quando nel 2007 è stata arrestata per “raccolta fraudolenta di fondi”, a 28 è stata condannata a morte. Wu Ying oggi ha 31 anni e su di lei incombe l’implacabile verdetto della Corte popolare della provincia del Zhejiang, che ha rifiutato il suo ricorso in appello.

Imprenditrice miliardaria ed ex proprietaria del gruppo Zhejiang Bense Holding “con i suoi gravi crimini ha causato enormi perdite per il Paese e per il suo popolo, e pertanto dovrà pagare”, scriveva venerdì il China Daily.

770 milioni di yuan (oltre 122 milioni di dollari) il bottino intascato avanzando false promesse di alti guadagni ad investitori, nel biennio 2005-2007. I molti i debiti lasciati scoperti e i 380 milioni di yuan mai restituiti hanno scatenato la macchina giuridica cinese che- come specificato dal China Daily- “nei casi di raccolta illegale di fondi prevede come massima sanzione la pena di morte”

Ma la notizia ha colto di sorpresa un po’ tutti, avvocati difensori della donna in primis. Zhang Yanfeng, legale di Wu ha dichiarato che farà di tutto per ottenere un alleggerimento della pena, in attesa della revisione della Corte suprema del popolo di Pechino a cui, in caso di sentenze di morte, spetta sempre l’ultima parola.

E a quanto pare ad essere rimasta sotto shock non è stata soltanto la difesa della tycoon cinese. Da giorni l’opinione pubblica si interroga sulla decisione presa dall’organo giurisdizionale del Zhejiang. “Normalmente tutti pensano che quando viene emessa una condanna a morte, in seconda istanza ci possa essere una svolta, ma in questo caso il risultato finale è ancora la pena di morte, questo stupisce non poco per il semplice fatto che non si può pagare con la vita un crimine economico”, scriveva giovedì il portale in lingua cinese News163.

Il verdetto della Corte ha instillato nel popolo del web non pochi dubbi: i 380milioni di yuan racimolati illegalmente che fine hanno fatto? Le pratiche di finanziamento e i prestiti concessi erano attività condotte in prima persona o dall’unità lavorativa in generale? Lo scopo perseguito da Wu Ying in definitiva era quello del possesso illegale o del semplice prestito?

Come ha fatto notare lo studioso cinese, Lang Xianping, nei migliaia di casi di corruzione in cui sono stati coinvolti negli ultimi anni funzionari pubblici, le pene capitali sono state molto rare.
Cos’è dunque che ha spinto la giustizia cinese ad accanirsi tanto contro la miliardaria di Jinhua?

Probabilmente a mettere in allerta è stata l’ondata di fallimenti a catena che dall’inizio del 2011 ha colpito le piccole e medie aziende di Wenzhou, proprio nel Zhejiang, dove si parla di ben 230 casi di uomini d’affari costretti alla fuga o al suicidio in seguito alla crisi del credito.

I fallimenti sono il risultato di forti debiti contratti da imprenditori nei confronti di strutture di credito informali o sotterranee le quali spesso concedono prestiti con tassi da usura (che possono raggiungere il 180%) e non esitano a mettere in pratica espedienti da malavita per poter rientrare in possesso delle somme. Il governo provinciale del Zhejiang ha dichiarato che l’entità di questi fallimenti è ben più allarmante di quella causata dalla crisi dei mutui sub-prime americani del 2008.

La società di Wu Ying non è altro che la punta dell’iceberg di un fenomeno che ha ormai messo salde radici nella regione meridionale del Paese. Secondo alcune stime l’89% delle famiglie della zona partecipano a tale struttura creditizia, che è il lascito dello sviluppo della piccola imprenditoria privata della Cina post-maoista, di quello che negli anni ’80 prese il nome di “modello Wenzhou”.

Ma non solo. Come prevedibile, la storia di Wu ha finito per riaccendere i riflettori sulla questione pena di morte. Sulla scia delle riforme del diritto penale attuate lo scorso primo maggio, Pechino ha abrogato la pena capitale per tredici reati economici di natura “non violenta”, ma nel caso di finanziamenti illeciti la legge continua ad essere severissima.

Anche il direttore esecutivo della rivista indipendente Caijing, sul suo microblog, ha mostrato la propria indignazione verso la sentenza emessa dalla Corte del Zhejiang. “Come bisogna giustiziare Wu Ying allo stesso modo bisogna giustiziare i funzionari corrotti. Nella maggior parte dei casi questi ultimi sono esenti dalla pena di morte, solo che mentre persone come Wu Ying vengono fuori una volta ogni tanto, di quadri corrotti invece ce ne sono in quantità; a questo punto chi è più pericoloso per la società? La stessa clemenza dimostrata verso di loro andrebbe concessa anche alla signorina Wu, e ciò è proprio quanto desidera il popolo, anche se gli esperti non sembrano tenerne conto. Questa è la ragione per la quale Wu Ying si è conquistata l’appoggio della gente comune. L’opinione pubblica può essere di parte, ma alle autorità spetta il dovere di effettuare delle indagini accurate.”

Meno benevolo il giudizio di Wu Qilun, commentatore finanziario, il quale ha sottolineato come la morte dell’imprenditrice cinese sarà di grande insegnamento per tutti. “La sua condanna ha scosso il web, la notizia ha avuto un’ampia eco e molti sono i dubbi che oscurano la vicenda. In sua difesa sono stati chiamati i principi del foro, ma io penso che la mole degli illeciti commessi e il numero delle persone rimaste implicate richieda necessariamente delle misure molto dure. Wu Ying dovrà morire, questo è il prezzo delle sue colpe e sarà anche un avvertimento per tutti gli altri.”

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