ROMA – A scrivere questa storia sembra di gettarsi nella stesura di un romanzo di fantapolitica, ma non è così. Quello che sta avvenendo nelle strade italiane in queste ore davanti agli occhi attoniti di milioni di cittadini inermi è molto concreto. E viene da lontano. Ha un sapore antico, ed è tutt’altro che una versione italica delle primavere arabe.
Iniziamo dalla Sicilia. Sette giorni di blocchi delle strade, dei porti, della distribuzione di beni di prima necessità. Danni per decine se non centinaia di milioni di euro. E una regione allo stremo, esasperata. E ancora atti di violenza, intimidazioni, aggressioni, veri e propri sequestri di persona di centinaia di persone inermi ai blocchi stradali e perfino, in coda, non troppo dissimulati atti di estorsione a commercianti e imprenditori e camionisti “crumiri”. Questo il bilancio della cosiddetta rivolta in Sicilia del fronte composto dagli agricoltori del movimento dei Forconi e degli autotrasportatori di Forza d’urto. Una settimana di follia e di sottovalutazioni, di strumentalizzazioni spericolate e occhi bendati. Una settimana di assurdo silenzio da parte dei partiti nazionali e del governo.
Rivolta di popolo? In parte certamente si, vista l’evidente saldatura scattata in Sicilia fra ogni emergenza e categoria sociale e i due filoni portanti della “rivoluzione dei forconi”, coltivatori e camionisti. Contro il potere della Regione Sicilia (che ricordo essere una delle autonomie più forti del Belpaese)? Neanche per sogno. Contro i partiti che hanno sostenuto la disastrosa gestione del governo di Berlusconi? Ma non scherziamo. Tutti, e ripetiamo tutti, contro il governo Monti e le sue liberalizzazioni. E basta.
Si rimane stupiti a scoprire che il governatorissimo Raffaele Lombardo incitava, certo non con il megafono ma negli incontri formali e informali con i capi della rivolta, a proseguire nella “lotta”. Come si rimane a bocca aperta apprendendo delle neanche troppo dissimulate simpatie del potentissimo scissionista – mai scisso fino in fondo – del Pdl, Gianfranco Micciché (che anche il selciato di piazza Marina a Palermo sa essere legato a doppio filo con Marcello Dell’Utri) per il forconismo isolano. Davanti a questi due sponsor politico, l’infiltrazione/strumentalizzazione di Forza Nuova del e nel movimento è davvero poca cosa.
Il potere clientelare. Da sempre, fin dalla costituzione dell’Assemblea Regionale Siciliana, il clientelismo nel settore agricolo è stato uno se non l’unico modo di accedere a facilitazioni e finanziamenti (regionali e europei), a defiscalizzazioni e compensazioni di perdite. «Quando è un partito di massa a controllare il rapporto clientelare – scriveva anni fa Amelia Crisantino su La Repubblica Palermo -, è avvenuto in Sicilia con la vecchia Dc e avviene anche adesso e persino con più protervia di prima, il comune cittadino si ritrova davanti ad una scelta obbligata. Lui vorrebbe un servizio, un lavoro, una licenza. Il politico gli offre di entrare in una catena clientelare. Le risorse da distribuire non sono infinite, ma ben presto il cittadino imparerà che la politica ha il monopolio di tutte le risorse. Quindi anche della speranza». Salta oggi, con l’impatto dell’azione del governo Monti e degli effetti della crisi, la relazione diretta fra politico locale e imprenditore agricolo? Scatta la protesta, appoggiata anche se indirettamente dal politico stesso che non ha più gli strumenti per garantirsi la continuità del rapporto clientelare. Quindi Lombardo che invita gli agricoltori a continuare i presidi per convincere il governo a recedere dalla propria intenzione di “espropriare” poteri alla Regione e gli alleati come Micciché che si adeguano, anche se meno esplicitamente, soffiando sul fuoco. Non è un caso che i portavoce del movimento dei Forconi (e dei TIR) siciliani abbiano tutti un trascorso di relazioni e attivismo politico con partiti di potere locale come l’Mpa, il Pdl o prima Forza Italia.
Un meccanismo analogo a quello che sta avvenendo a Roma sulla vicenda taxi, con la politica del governo capitolino che si è vista strappare da Monti la discrezionalità, di fatto, delle licenze e con lo scatenarsi della protesta che si innesca proprio a causa della paura che l’azione del governo implichi il dissolversi del rapporto diretto e personale con il politico di riferimento e quindi del proprio privilegio ottenuto con, e non solo, con il voto.
Senza andare a rifarsi ad Hoffa. Storicamente il settore dell’autotrasporto in Sicilia è stato uno dei principali ambiti di investimento economico di Cosa nostra. Lo è stato a partire dagli anni ’50 quando Luciano Liggio divenne uno dei più potenti imprenditori del settore nel palermitano. Sia perché c’era un guadagno diretto legale e la possibilità di riciclare denaro sporco, sia perché una propria rete di autotrasportatori serviva per la distribuzione di alimenti sofisticati e dei tabacchi di contrabbando, prima, e dei narcotici poi. Una lezione imparata in fretta da altri membri della cupola mafiosa. In particolare da quel Nitto Santapaola di Catania, che divenne proprietario di uno dei colossi del settore, la Riela, azienda in seguito confiscata. Una storia strana, quella della Riela, che da quando è stata strappata dalle mani della più potente e sanguinaria famiglia catanese ed è passata nelle mani dello Stato non riesce più ad ottenere commesse e sta per fallire. Ma il rapporto fra l’autotrasporto catanese e la famiglia Santapaola non si ferma qui. Nel 2009 è stato eletto come presidente della Federazione degli Autotrasportatori Italiani (Fai) della provincia (oggi è anche vicepresidente regionale dell’organizzazione) Angelo Ercolano. Ercolano, ovviamente incensurato, ha un legame diretto con il vecchio Nitto. Suo zio Pippo, cognato di Nitto, è il reggente della cosca Santapaola e suo cugino Angelo sta scontando l’ergastolo per aver ucciso nell’84 il giornalista Giuseppe Fava, storico direttore della rivista I Siciliani.
Il senatore del Pd Giuseppe Lumia ha presentato, in tempi non sospetti, una dettagliata interrogazione parlamentare diretta al presidente del consiglio e al ministro dei trasporti. Leggiamone un brano: «E’ risaputo che la famiglia Ercoloano gestisce, attraverso una società di trasporti, il traffico delle merci in entrata e in uscita dal porto di Catania e che il cugino di Vincenzo Ercolano, Angelo, eletto rappresentante regionale della federazione autotrasportatori, è figlio di Giovan Battista, anche lui condannato per mafia (…) in un’informativa del 1994 il Raggruppamento operativo speciale dell’Arma dei Carabinieri informava gli inquirenti di un summit mafioso in cui i boss parlavano di un accordo che coinvolgerebbe l’attuale senatore del Pdl Marcello Dell’Utri e le famiglie mafiose Ercolano e Santapaola, il primo alla ricerca di voti per le elezioni e i secondi di coperture politiche per lo sviluppo dei propri interessi economici e per l’ottenimento di finanziamenti statali, relativi soprattutto all’aggiudicazione di appalti pubblici”. Clientelismo, ancora. E condizionamento di affari e appalti.
Non un caso locale. C’è Ercolano dietro la rivolta degli autotrasportatori catanesi che, di fatto, ha trascinato nei blocchi i camionisti delle altre provincie? No. O forse sarebbe meglio dire, non proprio. Perché proprio per voce dello stesso Ercolano la Federazione degli Autotarsportatori non ha aderito formalmente “per ora” alle proteste, ma ha anche dichiarato che il gruppo dirigente della Fai è consapevole «della pesante situazione in cui versano gli autotrasportatori dell’isola». E poi ha concluso, nel comunicato rilasciato alla vigilia dei blocchi: «Ribadiamo la nostra contrarietà ad una protesta di carattere territoriale». E se la protesta si trasferirà a livello nazionale, come è avvenuto oggi? Vedremo.
Certo non rassicura che i punti “caldi” della protesta dopo la Sicilia siano in altre regioni dove la criminalità organizzata, come Cosa nostra nell’Isola, ha puntato da sempre a controllare il trasporto commerciale su gomma. La Calabria, prima, e la Campania, e in particolare la provincia di Caserta e il sud del Lazio “feudo” dei Casalesi, poi. E dove la “relazione clientelare” sia più forte.
Post scriptum in salsa cilena
L’ottobre del 1972 vide la prima di quella che sarebbe stata un’ondata di scioperi da parte di alcuni settori della società cilena. Ad uno sciopero dei camionisti si aggiunsero quelli dei piccoli imprenditori, di alcuni sindacati (principalmente di professionisti), e di alcuni gruppi studenteschi. Oltre all’inevitabile danno all’economia, l’effetto principale dello sciopero di 24 ore fu di portare il capo dell’esercito, generale Carlos Prats, all’interno dell’esecutivo come Ministro degli Interni. (wikipedia)