Libia. L’assenza di Israele nel conflitto libico

NOUAKCHOTT – Nel panorama della prima settimana di conflitto armato con il regime libico di Gheddafi è stranamente assente un attore importante del Medio Oriente: Israele.

Negli ultimi due giorni le notizie dalla Palestina sono rimbalzate con la solita litania: Hamas spara missili su centri abitati israeliani, Israele risponde con i blindati uccidendo 4 palestinesi. E” la solita musica? Non proprio. Intanto c’è da constatare che sia Hamas che l’Autorità Palestinese che hanno legami storici e consolidati con Gheddafi tacciono. Perché? La risposta sta nell’assenza d’appoggio del popolo palestinese al dittatore sanguinario di Tripoli e nella necessità di garantire gli interessi economici libici nell’economia palestinese. In secondo luogo la maggioranza dei palestinesi ha capito negli ultimi anni che la via per l’indipendenza nazionale non passa per le armi e che l’attuale embrionale stato palestinese è una “democrazia senza Stato” ove la corruzione e il tribalismo regolano la totalità dei rapporti sociali politici ed economici. In ultimo la spartizione dei territori tra Hamas e Olp rende debolissima la posizione internazionale dei palestinesi, obbligando a fare da ruota del potente arabo di turno.

Per Israele il ragionamento è ben più complesso: dall’assassinio di Rabin la politica israeliana ha perso un orientamento attivo per la risoluzione del conflitto arabo-palestinese-israeliano (con l’eccezione del tentativo di Ehud Barak bloccato non a caso da Arafat) e l’attuale dirigenza di destra guidata da Netanyahu non sa altro che proseguire la suicida politica degli insediamenti ebrei nel territorio palestinese per rosicchiare terra al futuro Stato palestinese. Le rivoluzioni in Egitto e Tunisia hanno improvvisamente tolto di scena due fondamentali interlocutori di Tel Aviv; in particolare Mubarak aveva garantito l’isolamento di Hamas e lo sviluppo dei rapporti di scambio (il 40% del gas per Israele arriva dall’Egitto). Ma non solo l’Autorità Palestinese acquista regolarmente 2,5 miliardi di dollari di merci da Israele, 2 milioni di dollari di prodotti chimici sono stati acquistati dalla Tunisia di Ben Ali nel 2009; il Marocco acquista regolarmente 13,4 milioni di dollari in merci israeliane, di cui 5,1 milioni in vestiti e derrate alimentari; gli Emirati Arabi Uniti acquistano da tempo circa 11 milioni di merci israeliane; ed infine la Libia. Il fondo sovrano libico, che non è altro che il danaro pubblico delle entrate petrolifere libiche utilizzato all’estero, ha partecipazioni in un centinaio d’aziende e società di tutto il mondo: ad esempio il Financial Times è posseduto anche da investitori israeliani e nello stesso tempo ha una partecipazione del fondo sovrano libico. Quindi Israeliani e regime libico hanno interessi comuni, che in futuro non saranno scontati. E’ comprensibile che il governo di Tel Aviv tenga un profilo bassissimo per evitare di perdere tanti succulenti affari. E poiché chi vi scrive è cresciuto con la certezza che Israele sia stato uno dei pochi successi di stato democratico fondato su una visione socialista (chi non ricorda i viaggi di volontari comunisti e socialisti italiani nei Kibbutz dell’allora deserto del Negev, straordinariamente trasformato nel polmone agricolo israeliano?), devo purtroppo constatare che tutto ciò è oramai storia. Rimasto intatto l’impatto democratico oramai di socialismo non ve n’è più traccia: i 16 Paperoni israeliani possiedono ben il 22% della ricchezza prodotta in Israele (dati Forbes 2010), una sperequazione impressionante che si riflette nell’aggravarsi delle condizioni di vita della parte di ebrei askenaziti, ossia provenienti dall’est Europa, che non casualmente sono utilizzati dal governo di Tel Aviv come avanguardie per gli insediamenti ebrei in Palestina. Israele è divenuto un paese dalle enormi diseguaglianze sociali, ove la rete di solidarietà delle 12 originarie tribù (il primo sistema di welfare della storia umana) non riesce a fare fronte da molti anni. Basta sfogliare i quotidiani israeliani per rendersi conto della grave crisi sociale in atto: il 23,6% della popolazione vive sotto la soglia di povertà (Cia Factbook 2010) e l’indice Gini di concentrazione della ricchezza è peggiorato del 10,42% in 7 anni ad una velocità ben maggiore d’Italia e Stati Uniti: 1, 49 con 1,33-Italia- ed 1,03-USA- (elaborazione su dati Cia Factbook 2010). Contemporaneamente si sta formando una classe sociale di ricchi che trainano l’economia israeliana (+3,4%), senza però una ricaduta a pioggia sulla popolazione. Una crescita economica che trova nel perenne stato di guerra imminente fin dalla nascita dello stato israelitico un carburante prezioso: industria chimica, elettronica e degli armamenti sono all’avanguardia mondiale e detengono quote relativamente importanti dei mercati asiatici ed africani. La prospettiva di un mondo arabo che si trasforma autonomamente modificando gli stati feudali e dittatoriali di cui è composto in regimi democratico-liberali spaventa la destra israeliana al potere e sconcerta la sinistra priva da tempo di una strategia alternativa. Nel bene e nel male fino alla fine del 2010 Tel Aviv aveva un vantaggio competitivo insuperabile rispetto a tutti i suoi nemici: una democrazia attiva ed un economia di mercato di successo favorita anche dal flusso costante di finanziamenti USA per far fronte alla minaccia alla sua stessa esistenza. Riprogettare Israele all’interno di un possibile prossimo contesto di relazioni pacifiche con importanti e strategici paesi arabo-africani apre l’annoso dossier del futuro del paese ebreo.

 

Tutta l’inteligencja ebrea ed israeliana sanno benissimo che la civiltà islamica ed ebraica sono molto più contigue di quanto lo sia quella cristiana con l’Islam ( e di riflesso ebraica) e, dati alla mano, oramai un quarto della popolazione israeliana è araba, che è la parte demograficamente più dinamica della società israeliana. Israele volente o nolente alla fine del secolo sarà molto probabilmente uno stato a metà arabo, un evoluzione che non avrebbe spaventato i padri della patria che hanno costruito una costituzione laica (ispirati esplicitamente da quella italiana), ma che rappresenta un vero incubo per la destra israeliana che da 15 anni fonda il suo core business sulla Grande Israele ebrea. Ma non fa nemmeno dormire tranquilla la sinistra che da tempo ha inseguito la destra nel nazionalismo etnico-religioso ed ha abbandonato le sue radici profondamente socialiste ed universaliste. Le dichiarazioni di Netanyahu su cambio di regime in Egitto e Tunisia, caratterizzate da scetticismo e cautela, sono la cartina tornasole di questo ragionamento: se Tunisi e Il Cairo diverranno democratiche la pace e la risoluzione del problema palestinese non potranno più essere procrastinate. Ed allora meglio tacere e nascondersi nella speranza di trovare il bandolo della matassa senza ritrovarsi all’interno del museo dei ruderi della Storia.

Ps Tarak Ben Hammar storico finanziatore ed amico della famiglia di Ben Ali ha dichiarato qualche giorno fa durante una telefonata alla trasmissione d’approfondimento condotta da Gad Lerner che il fondo sovrano libico, che ha partecipazioni nelle società del tycoon tunisino-palestinese, non è proprietà della famiglia Gheddafi ma del popolo libico. Ben Hammar ha formalmente ragione, ma è come dire che Mediaset non è proprietà di Silvio Berlusconi (suo intimo amico talaltro) solo perché il presidente é il figlio e l’amministratore delegato il suo più caro e fedele amico Fedele Confalonieri. Il fondo sovrano libico è dello stato libico per definizione essendo un fondo governativo, che opera sui mercati internazionali, ma lo stato libico è ad oggi la famiglia e la tribù di Gheddafi. Quindi per la proprietà transitiva, Gheddafi continua a possedere (auguriamoci di tutto cuore per ancora pochissimo tempo) il fondo sovrano libico. Il resto è un gioco delle tre carte piuttosto sciocco per una mente raffinata ed acuta come Tarak Ben Hammar.

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