Umberto Bossi sarebbe pronto a liquidare Berlusconi. Il 12 giugno a Pontida

ROMA – Oramai non ha molte alternative, il Senatùr. La base gli ha inviato un messaggio che più chiaro non potrebbe essere: mollare Berluskaz e tornare alla propria indipendenza, al “movimento padano”, uno dei fenomeni politici di maggior rilievo degli ultimi venti anni. Bossi, nonostante le remore, sembra che si sia convinto. La tattica attendista che fino ad ora ha caratterizzato le sue mosse oramai non paga. Complessivamente, la Lega, nelle elezioni del “suo” Nord, ha perduto una marea di voti. Un segnale inequivocabile che, andando avanti così, la “sua” gente non lo seguirebbe più.

DIMENTICARE BERLUSCONI. Ora è diventato una sorta di imperativo categorico: dimenticare Berlusconi e l’esperienza di governo, che comunque ha realizzato l’obiettivo prioritario della Lega, cioè il federalismo. Il Senatùr, per questo, è grato al vecchio compare, ma la politica insegna che non si può rimanere fermi per sempre, pena il declino. Ed è proprio questo che Bossi teme, la stagnazione del “movimento padano” e la sua eccessiva istituzionalizzazione. Al suo interno non sono pochi i dirigenti che lo spingono ad abbandonare Berlusconi. In primo luogo Roberto Maroni, da sempre stretto fra la sua ansia legalitaria e le “zone grigie” che caratterizzano l’alleato di governo, soprattutto nel Meridione. Poi lo stesso Calderoli ma soprattutto un personaggio emergente nel partito: Flavio Tosi, il sindaco di Verona. Proprio Tosi e Matteo Salvini (quet’ultimo ha evitato una vera e propria disfatta a Milano, facendo anzi recuperare suffragi al partito) sono risultati i più freddi verso il Pdl, giudicato oramai come un partito inaffidabile e perdente. Il sindaco di Verona è diventato un volto notissimo in tv. Ai padani piace il suo carattere maschio e risoluto, la sua vena popolare (“Non siamo un partito di intellettuali ma di gente che lavora e suda ogni giorno!”), la sua capacità di non creare fratture, il suo buon senso nordico, la sua concretezza. È proprio a queste persone che Bossi sta pensando, oltre che a Maroni, per inaugurare il nuovo corso leghista: il consolidamento del modello federalista di Stato, fondato sulla valorizzazione dei Comuni e della buona amministrazione.

IL PROGETTO PROPORZIONALISTA. Il capo assoluto della Lega sta pensando ad una serie di tappe che caratterizzerebbero il dopo-Berlusconi. Un governo di decantazione, con a capo magari un leghista (Maroni) o lo stesso Tremonti, le cui azioni come premier stanno salendo nel momento in cui Berlusconi gli addebita le colpe della sconfitta elettorale. Contemporaneamente un accordo con i centristi e il Pd per predisporre una nuova legge elettorale alla tedesca (proporzionale con soglia di sbarramento) che salverebbe capra e cavoli: se la Lega perde le elezioni conserva comunque una nutrita truppa di deputati e il ruolo di ago della bilancia per la formazione di una nuova maggioranza. Questa strategia ha il pregio di convogliare l’attenzione sia di Bersani che di Casini, quest’ultimo da sempre un convinto assertore della validità del modello tedesco.

TREMONTI RISOLUTORE. L’asse con Giulio Tremonti non si è mai spezzato. Anzi, ora sembra ancora più forte, dopo che il magnate di Arcore ha trovato nel ministro dell’economia il comodo capro espiatorio per una sconfitta elettorale che va invece addebitata interamente alla sua attuale impotenza. Difficile che il superministro accetti di aprire i cordoni della borsa, come vuole Berlusconi, difficile che modifichi la sua politica economica restrittiva, difficile che possa approntare in quattro e quattr’otto una riforma fiscale, oggi come oggi impossibile, dati i vincoli di bilancio. Sostenere a spada tratta Tremonti diventerebbe allora il perno centrale dell’azione politica di Bossi, facendone, come usavano gli antichi romani quando volevano scatenare un conflitto, un “casus belli” per staccare la spina con il Pdl.

BERLUSCONI NON HA CAPITO. La decisione di nominare Angelino Alfano segretario del Pdl, lasciando intatto il triumvirato La Russa-Verdini-Bondi mostra come il magnate di Arcore abbia capito poco della situazione, pensando di poter arginare la deriva con l’istituzione di una nuova, inutile poltrona. Il Pdl non è un partito ma un ramo di azienda, che dipende esclusivamente dal suo proprietario. Qualsiasi carica è depotenziata in partenza. Ma allo stesso tempo, Berlusconi appare stritolato dalle correnti di potere e dalla stessa forza di un Denis Verdini, cui i leghisti addebitano le principali responsabilità del crollo elettorale del centro-destra. È lui, insieme a Nicola Cosentino, che dovrebbe essere esautorato nel Pdl. Ma Berlusconi non può farlo e nessuno conosce i reali motivi di questa impotenza. Personaggi forse troppo potenti anche per il magnate di Arcore e, soprattutto, troppo pericolosi. È di queste figure che la Lega non ne può più. Pontida potrebbe decretarne la fine (ingloriosa) e la damnatio memoriae.

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