Ordini professionali. La guerra delle corporazioni al governo Monti

 

Producono il 15% della ricchezza nazionale e occupano quattro milioni di persone (il 16% dell’occupazione complessiva). Eppure soffrono di contraddizioni insanabili: la maggior parte degli iscritti in molti ordini non svolge la professione

Mario Monti non sembra voler mollare. I duri anni passati a Bruxelles a domare monopolisti potentissimi come Bill Gates, con risultati brillanti, forse lo fanno l’uomo più adatto fra i molti di paglia che, in Italia, hanno cercato di sconfiggere il vero “potere forte” da sempre esistente nel nostro Paese: quello degli ordini professionali.

Ma il numero dei parlamentari che sono iscritti alle corporazioni dovrebbe scoraggiarlo. Nelle due Camere, infatti, risiedono e svolgono puntigliosamente il loro lavoro a favore della propria cricca ben 133 avvocati (il gruppo più numeroso), 53 medici, 23 commercialisti, 13 architetti, 90 giornalisti. Persone disposte a barricarsi nell’Aula pur di difendere la sopravvivenza del proprio ordine professionale, compresi quei giornalisti che un giorno sì e  l’altro pure sparano alzo zero contro i privilegi della casta e la scarsa mobilità sociale.

Proprio la categoria dei giornalisti è significativa delle enormi contraddizioni di questo Paese. Nonostante l’esistenza di una norma della Costituzione (articolo 21) che sancisce la libertà di manifestazione del pensiero, la legge sulla stampa (emanata addirittura nel 1948), un residuato post-bellico che ancora nessuno ha avuto il coraggio di sostituire con regole più adatte ai tempi, nell’era del predominio del web, obbliga chiunque voglia aprire e gestire un periodico o un quotidiano ad assoldare un iscritto all’ordine dei giornalisti come direttore responsabile. Oggettivamente, una limitazione contrarissima all’articolo 21, perché il giornalista deve essere retribuito e ciò è una barriera all’entrata per la libertà di pensiero. Ma la giustificazione dei difensori dell’ordine dei giornalisti è ancora più incredibile: il direttore responsabile assicura la veridicità “professionale” delle notizie e soprattutto è necessario quando si commettono reati con il mezzo della stampa. A parte che l’iscrizione alla corporazione non ha mai impedito a molti giornalisti di raccontare scientemente il falso per conto perfino dei servizi segreti (si pensi alla vicenda di Renato Farina, un giornalista poi diventato deputato berlusconiano, espulso dall’Ordine per aver diffuso dossier falsi contro Prodi e il centro-sinistra), si potrebbe benissimo attribuire la responsabilità per i reati di stampa (diffamazione aggravata, diffusione di notizie false e tendenziose, ecc.) all’autore dell’articolo e al direttore responsabile senza che quest’ultimo sia iscritto ad una qualsiasi corporazione (uno dei pochi casi di “responsabilità oggettiva” in campo penale).

Ora che all’ordine dei giornalisti sono in subbuglio per la preventivata soppressione dell’elenco dei pubblicisti (coloro che non svolgono esclusivamente la professione di giornalista), perché per entrarvi non c’è bisogno di un esame e ciò contrasta con l’articolo 33, quinto comma della Costituzione, il più inutile degli elenchi che molto spesso serve unicamente per sbandierare un tesserino e professarsi “giornalista” senza essere nemmeno mai entrati in una redazione, si può immaginare come si stiano organizzando altri Ordini, molto più strategici, in difesa di interessi miliardari.

Già, perché i propositi dell’attuale governo non lasciano ampio spazio all’immaginazione. Monti, al quale l’ordine dei giornalisti, pochi giorni fa, ha donato un’iscrizione “honoris causa” per ingraziarselo, vuole di nuovo, dopo la legge di Bersani del 2006, poi prontamente abrogata da Berlusconi e Tremonti nel 2008, abolire le tariffe minime, uno dei postulati sui quali si regge tutto l’edificio delle corporazioni professionali. Non solo, perché è proprio l’esistenza di ordini professionali, così come strutturati oggi, a rappresentare per il capo del governo una oramai poco sopportabile limitazione oggettiva della concorrenza e quindi una violazione di norme dei Trattati europei.

Ma che la sua battaglia si concluda con una vittoria sono in pochi a prevederlo. Le corporazioni stanno affilando i coltelli e oliando ben bene i mortai e presto inizieranno a cannoneggiarlo. D’altronde, i numeri che possono vantare sono di tutto rispetto. I professionisti iscritti agli albi sono 2,1 milioni, anche se fra 2010 e 2006 sono calati di numero, in alcuni casi, come quello degli agronomi del 61%, dei geologi (-51%), degli architetti (-35%), chimici (-34%), dentisti (-31%). Hanno prodotto un volume di affari di 196 miliardi nel 2010, pari al 15% del Pil e sviluppano un indotto che coinvolge 4 milioni di lavoratori (il 16% dell’occupazione complessiva). Le sedi locali degli ordini professionali sono oltre 1.900, di cui 118 regionali, gestite da oltre 20 mila consiglieri eletti periodicamente.

Ma non tutti gli iscritti alle corporazioni svolgono effettivamente la professione; un’altra contraddizione del sistema. Mentre fra i notai non si registrano defezioni (100% svolge l’attività conseguente all’iscrizione all’albo) e si capisce bene il perché essendo soltanto poco più di 4.675 in tutta Italia, gli avvocati attivi, iscritti alla casa previdenziale, sono il 72%, gli ingegneri il 30%, gli architetti il 56%, i giornalisti il 40%, i commercialisti il 72%, i periti agrari addirittura superano di poco il 18%. Questo vuol dire che, per la maggior parte degli Ordini professionali, i laureati si iscrivono ma non trovano opportunità di lavoro e quindi sono costretti a fare i lavoratori dipendenti (o sceldono di essere tali), pur rimanendo, sulla carta, “liberi professionisti”. Ma allora, a che serve l’iscrizione e soprattutto: a che serve l’Ordine?

 

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