Fra Travaglio e Scalfari volano gli stracci. “Il Fatto” sotto accusa

 

Accuse reciproche fra la star del giornalismo antiberlusconiano e l’anziano patriarca di “Repubblica” sul referendum elettorale. Ma anche “L’Unità” e “Il Manifesto” attaccano “Il Fatto”. Lotta senza quartiere (e senza ragioni) fra i giornali di opposizione al berlusconismo

Una lotta senza quartiere, quella fra “Il Fatto” e “Repubblica”, i due principali quotidiani che si sono caratterizzati, in questi anni, per il loro “endorsement” contro Silvio Berlusconi. In realtà, è proprio il quotidiano diretto da Antonio Padellaro ad essere messo sotto tiro dal “fuoco amico” di organi di stampa che hanno combattuto la stessa battaglia politica. Vediamo di cosa si tratta.

Il caso Malinconico. Fin dalla sua fondazione, nel 2010, il quotidiano diretto da Padellaro, con Marco Travaglio vicedirettore ed editorialista di punta, ha voluto precisare che la sua impresa editoriale non si sarebbe avvalsa dei contributi diretti per l’editoria, tanto da scriverlo come  esergo appena sotto la testata rossa. Una sorta di punto d’onore contro un sistema di finanziamenti pubblici che premia giornali-fantasma, che i lettori nemmeno conoscono.

Quando il giornale di Padellaro svela il caso di Carlo Malinconico, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dimessosi per le vacanze gratis pagategli da alcuni imprenditori della “cricca”, Marco Travaglio accusa senza mezzi termini la maggior parte dei quotidiani di non aver parlato dallo scandalo per non inimicarsi il potente responsabile del settore editoria dell’Esecutivo, quello da cui dipendono gli agognati contributi pubblici: “E alcuni giornali imbottiti di soldi pubblici – ha affermato Travaglio –  si sono adontati perché abbiamo fatto notare la coincidenza del loro silenzio su Malinconico (ex sottosegretario all’Editoria, ndr) che li aveva appena imbottiti di soldi pubblici: ma se la coincidenza non la fa notare l’unico giornale che rifiuta i finanziamenti pubblici, chi altri la farà notare?” .

La cosa non fa affatto piacere a “L’Unità” e a “Il Manifesto”, che di quei contributi vivono, perché in edicola vendono copie insufficienti per i loro bilanci. Il direttore dello storico quotidiano fondato da Antonio Gramsci, Claudio Sardo, non le manda a dire: “Ma questo Travaglio, e il suo direttore Padellaro non sono per caso gli stessi che lavoravano qui da noi poco tempo fa, rispettivamente come firma di punta e direttore?” scrive e ricorda come lo stesso Padellaro, quando era direttore proprio de “L’Unità” si fosse fatto interprete di petizioni per il finanziamento pubblico dei giornali di partito.

Ancora più duro un editoriale de “Il Manifesto”, apparso il 12 gennaio, in cui si accusa il giornale diretto da Padellaro di aver detto il falso sui suoi presunti silenzi su Carlo Malinconico. “Il manifesto conduce da anni una battaglia pubblica e dichiarata a difesa del sostegno ai soggetti deboli dell’informazione – riferisce l’editoriale non firmato – discriminati sul mercato della pubblicità; e per una riforma del finanziamento pubblico che faccia pulizia di espedienti, furbizie e abusi”.

Travaglio vs. Scalfari. Travaglio se la prende anche con il patriarca del giornalismo italiano, il fondatore di “Repubblica” Eugenio Scalfari. Qui bisogna dire che fra il quotidiano romano e “Il Fatto” non è corso mai buon sangue. La fondazione di un nuovo organo di informazione, accesamente di opposizione al governo Berlusconi, in un qualche modo, ha intaccato il primato del quotidiano di Carlo De Benedetti. Le cose sono peggiorate quando i giovani giornalisti de “Il Fatto” hanno mostrato di saperci fare, con diversi scoop, sfuggiti all’attenzione dei segugi diretti da Ezio Mauro (come ad esempio nel caso Ruby, o lo stesso caso Malinconico). Insomma, il fastidio provato da “Repubblica” è stato sempre evidente, soprattutto quando proprio Marco Travaglio, che pure è stato corrispondente da Torino del quotidiano di largo Fiochetti e tuttora collabora con “L’Espresso”, ha iniziato a lanciare l’idea che gli scoop di “Repubblica” siano guidati politicamente da una vicinanza sempre più manifesta al Partito democratico di Pierluigi Bersani.

Come se non bastasse tutto questo, nei giorni scorsi è scoppiata la polemica fra la star dell’antiberlusconismo e Eugenio Scalfari, il patriarca del giornalismo progressista italiano. Argomento del contendere: la bocciatura del referendum elettorale da parte della Corte Costituzionale. Travaglio ha attaccato pesantemente la Consulta, asserendo che si tratta di una bocciatura politica, mentre Scalfari ha difeso le ragioni dei giudici. Allora Travaglio, ricorrendo al suo archivio (che in questo caso è costituito dalla raccolta di tutti gli articoli scritti da Scalfari e pubblicati dal suo quotidiano qualche anno fa), ha rispolverato un paio di editoriali scalfariani nei quali emergeva la convinta adesione dei primi anni Novanta dell’allora direttore di “Repubblica” ai referendum elettorali di Mario Segni. Si tratta dello stesso giornalista? Sì, risponde oggi con ironia Scalfari, solo che erano completamente diverse le richieste dei referendari: allora non si tentava l’abrogazione della legge elettorale ma una sua modifica, con l’abolizione delle preferenze; oggi, invece, si chiedeva l’impossibile, cioè l’abolizione di una legge di cui una democrazia non può fare a meno nemmeno per un minuto. Sferzante la conclusione di Scalfari: “Io non l’ho nominato (Travaglio, ndr) nell’articolo di domenica scorsa ma lui si è riconosciuto nella frase ‘editorialisti qualunquisti e demagoghi’. Se si è riconosciuto è segno che quella mia definizione gli si attaglia perfettamente per sua stessa ammissione”. Uno a zero per Scalfari e palla al centro.

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