Bush fa mea culpa sulla guerra in Iraq. Ma non chiede scusa agli americani

WASHINGTON – La storia dirà se avrà avuto ragione o meno. Per il momento l’ex presidente americano George W. Bush traccia un bilancio sostanzialmente positivo della sua amministrazione, nonostante la guerra in Iraq contro Saddam Hussein abbia pesato sulla sua credibilità al pari di un macigno.

La prossima uscita del suo libro di memorie “Decision Points” è stata l’occasione per concedere un’intervista a tutto tondo all’emittente NBC, durante la quale Bush jr ha rivendicato le decisioni prese quando era inquilino della Casa Bianca. Non solo, l’ex numero uno degli Stati Uniti si è anche definito “una voce dissidente” in merito alla guerra in Iraq, dichiarando di non aver mai voluto che si arrivasse all’uso della forza. Bush, in altre parole, avrebbe preferito una soluzione diplomatica alla questione. Soluzione diplomatica che non solo non ci fu, ma che degenerò molto presto in una vera e propria guerra alimentata dai sospetti, poi rivelatisi artatamente costruiti dalla CIA con l’aiuto dei servizi segreti italiani, circa l’importazione di grossi quantitativi di uranio dal Niger ad opera dell’Iraq di Saddam Hussein. Il mea culpa dell’ex presidente arriva proprio su questo punto controverso: “Nessuno rimase più sconvolto e arrabbiato di me quando non trovammo queste armi – ha dichiarato – Ogni volta che ci ripenso mi sento male, ancora oggi”. Un’ammissione di colpa che, però, ha deluso chi si aspettava un atto di scuse nei confronti del popolo americano. “Scusarsi significherebbe che la decisione presa era sbagliata – ha precisato durante l’intervista – E io non credo affatto che fosse sbagliata”.

Quanto allo scandalo delle torture commesse da soldati Usa nel carcere iracheno di Abu Ghraib, l’ex capo della Casa Bianca ha ammesso che la sua prima reazione fu “di nausea allo stomaco”. I militari statunitensi “non solo hanno maltrattato i prigionieri, ma hanno disonorato l’esercito Usa”. Nessun pentimento, invece, riguardo  l’uso del ‘waterboarding’, una “tecnica di persuasione” che simula l’annegamento, molto utilizzata durante gli interrogatori dei prigionieri. Il suo consulente legale, ha assicurato Bush, gli aveva confermato che non era proibita dalla legge contro la tortura. “Non sono un avvocato – ha sottolineato Bush – Mi devo fidare della gente che ho intorno. Il mio compito era proteggere l’America. Ed e’ quello che ho fatto”.

Ai posteri l’ardua sentenza. Di certo le immagini dei prigionieri torturati e la conferma dell’inesistenza di armi atomiche in terra irachena hanno contribuito ad alimentare il sospetto, poi divenuto certezza, che la “gloriosa guerra” contro il terrorismo non solo non si sarebbe conclusa tanto rapidamente, ma avrebbe comportato un prezzo altissimo, il più delle volte, come spesso accade, pagato da inermi civili, uccisi “per sbaglio”. Come Wikileaks insegna.

Valeria Nevadini

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