L’Italia del Caimano: scuole e università chiuse, ricchi sempre più ricchi, carcere per chi protesta

ROMA – In questi giorni, migliaia e migliaia di scuole sono autogestite o occupate dagli studenti, in massima parte appoggiati da insegnanti e presidi, insieme ai quali allestiscono spazi di approfondimento e di protesta contro la cosiddetta “riforma” dell’istruzione pubblica. Le Università hanno sospeso la normale attività didattica contro la cosiddetta “riforma” predisposta dal ministro Tremonti e annunciata dalla ministra Gelmini, che la spaccia come una sorta di panacea contro i baroni e i cascami del ’68 (intanto, all’esibizione del libretto universitario di Pierluigi Bersani, con molti trenta e lode, non ha fatto seguito, come richiesto, quello dell’avvocatessa che superò l’esame di Stato nella più compiacente Reggio Calabria).

I violenti scontri a Roma del 14 dicembre – deprecabili quanto si vuole – hanno comunque dimostrato che c’è una grande fetta di giovani che  non riescono a intravedere alcun futuro accessibile. Un giovane lavoratore o lavoratrice con contratti a termine e intermittenti, avrà dopo 40 di contributi e a condizione che lavori con continuità, una pensione di 320 euro mensili. I dati della Banca d’Italia mostrano come il 10% della famiglie possiede il 45% della ricchezza, una concentrazione della ricchezza degna di un Paese sudamericano e di un potere che cura soltanto gli interessi (limpidi e meno limpidi) dei grandi latifondisti.

Quasi otto anni di potere berlusconiano (2001-2006, 2008-2011), hanno portato l’Italia ad un passo dal default sociale e speriamo non finanziario. Un sistema fiscale che premia l’evasore e le grandi ricchezze ha dovuto forzatamente poggiarsi su tagli di spesa forsennati in settori considerati marginali e insistere nel prelievo fiscale forsennato dal lavoro dipendente. L’istruzione pubblica, da sola, ha fornito 8 miliardi alla diminuzione della spesa pubblica; nessun altro settore ha dovuto subire un taglio così profondo e esiziale per la tenuta del sistema. Per chi non ha figli in età scolare, è difficile comprendere le ricadute sulle famiglie e sui loro redditi di tali decisioni. A gennaio, chi dovrà iscrivere un bambino di sei anni alla scuola primaria, non potrà avere la certezza del tempo prolungato. La scuola sarà in grado di assicurargli il servizio solamente ad aprile, quando avrà ricevuto l’assenso del ministero per quei posti richiesti. Se il bambino non potrà restare a scuola fino alle 16, genitori o nonni dovranno prenderlo prima oppure saranno costretti ad iscriverlo in una delle tante scuole private, quasi tutte cattoliche, che assicurano il servizio e ricevono per questo finanziamenti statali in spregio dell’articolo 33 della Costituzione. Quindi, il governo ha messo surrettiziamente le mani delle tasche delle famiglie che, almeno in quelle dove entrambi i genitori sono occupati ed hanno bisogno del tempo prolungato.

Il sistema non garantisce più l’assegnazione di borse di studio ai figli delle famiglie non abbienti che si iscrivono all’Università, avendo sostituito queste ultime con “prestiti d’onore” (dati, cioè, senza una garanzia), che dovranno essere restituiti una volta che il giovane laureato troverà un posto di lavoro. Facile la battuta degli studenti che muovono le piazze: “Ora non solo più precari ma anche indebitati”.

Nello stesso tempo, i lavoratori pubblici non hanno più diritto agli avanzamenti automatici di carriera che, in regime di salari molto bassi, assicuravano loro un lento ma progressivo adeguamento delle remunerazioni al tasso reale di inflazione e alla scarse possibilità di mobilità sociale. Come se non bastasse, anche la contrattazione è stata congelata, in modo da impoverire progressivamente la loro condizione sociale, incidendo ciò, peraltro, su una domanda aggregata già di per sé debole che spinge al ribasso i consumi e non consente all’intero Paese tassi di crescita pari a quelli medi europei.

In questo disastro, giornali ed esponenti della maggioranza chiedono la galera anticipata per coloro che potrebbero dimostrarsi violenti o che sono considerati anche solo “oppositori” e critici del sistema, esattamente come accadeva nel periodo mussoliniano (del quale i vari La Russa e Gasparri sono degni epigoni). Una politica economica massicciamente liberista viene a coniugarsi con sistemi autoritari di gestione della sicurezza interna, cercando di dimostrare all’opinione pubblica che la violenza di piazza è inspiegabile e che non si comprendono le ragioni del malessere sociale dei giovani. Intanto il berlusconismo morente cerca di raccattare qualche deputato in Parlamento, mentre le macerie prodotte dalle sue decisioni sono destinate ad investire il corpo di questo martoriato Paese.

Fulvio Lo Cicero

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