La corruzione nei meandri delle imprese

ROMA – L’ondata di scandali e arresti che ha scandito le ultime due settimane, per la prima volta da molti anni non pone al centro dell’indignazione popolare la classe politica ma quella imprenditoriale.

Le monetine e gli insulti che una folla di cittadini senesi ha indirizzato verso Giuseppe Mussari, gia’ presidente dell’Abi e del Monte dei Paschi, dimostra che a ventuno anni esatti da Tangentopoli e’ accaduto quello che era probabilmente inevitabile: dai corrotti si e’ passati ai corruttori, mentre dalle nuove inchieste aperte dalle procure di mezza Italia emerge uno stato di degrado del nostro capitalismo non dissimile da quello che caratterizza la classe politica. Il vero problema messo in luce dai casi Saipem-Eni, Finmeccanica, Monte dei Paschi, infatti, non e’ se sia o meno indispensabile, per certi business, in certi paesi, procedere a colpi di mazzette: i manager sotto accusa, piu’ che favorire la crescita dell’impresa, sia pure ricorrendo a sistemi illegali, tendevano a far crescere i propri conti correnti. In gergo tecnico si chiama retrocessione (il campionato di calcio non c’entra) e funziona cosi’: io ti do’ una stecca da 10 milioni, tu mi dai il business, ma mi restituisci anche, sotto banco, una certa percentuale della stecca che ti ho pagato. Il tutto, naturalmente, alla faccia degli azionisti –soprattutto i piccoli- e della stessa azienda, che alla fine dell’operazione ne esce non arricchita, ma depredata. Si tratta di una grave mutazione genetica della corruzione rispetto a Tangentopoli: vent’anni fa le aziende incappate nelle reti di Mani Pulite pagavano i politici allo scopo di assicurarsi quote di business attraverso le quali crescere; oggi, invece, i manager pagano se stessi, per arricchirsi ulteriormente rispetto alle gia’ ricchissime retribuzioni di cui godono. Del tutto speculare, del resto, alla mutazione genetica che ha accompagnato i comportamenti dei politici: che negli anni Novanta rubavano per il partito, negli anni Duemila sono passati a rubare per se stessi, finendo, negli ultimi anni, per rubare direttamente al proprio partito e chiudendo così perfettamente il cerchio.

E’ il risultato di vent’anni di deregulation, due decenni in cui le leggi che avrebbero dovuto garantire la correttezza nel mondo dell’economia sono state finalizzate, invece, allo scopo esattamente contrario: a garantire, cioè, l’impunita’. Vanno in questa direzione le varie leggi Cirielli e Cirami, che hanno reso impossibile perseguire la corruzione e che la nuova legge varata dal Governo Monti (per ammissione dello stesso Monti) non ha affatto corretto. Ma il principale e forse più dannoso intervento, da questo punto di vista, e’ stato l’abolizione del reato di falso in bilancio, passaggio essenziale per consentire alle imprese di realizzare fondi neri da utilizzare, poi, per le tangenti. Non a caso, l’abolizione del falso in bilancio era stata richiesta ufficialmente proprio dal mondo dell’impresa e della finanza: per la precisione il 17 aprile 1997, con una lettera aperta, pubblicata sulla prima pagina del Sole 24 Ore, primo firmatario Enrico Cuccia, presidente di Mediobanca, all’epoca la piu’ importante istituzione finanziaria del nostro paese. Prendendo spunto dalla condanna per falso in bilancio a Cesare Romiti, Ad della Fiat, la lettera sosteneva che era assurdo punire un grande gruppo industriale per un ‘piccolo’ falso e accusava la magistratura di ‘’procedere con criteri rigoristici, anche se essi possono portare a riflessi negativi sulla vita delle imprese e sulla serenita’ della loro conduzione’’: piu’ o meno le stesse parole con cui, oggi, si criticano i magistrati che indagano su Saipem, Finmeccanica e MPS. Alla firma di Cuccia, seguivano quelle di cinquanta grandi nomi dell’impresa e della finanza: da tre ex presidenti di Confindustria come Luigi Lucchini, Vittorio Merloni e Sergio Pininfarina, a Enrico Bondi, a Giancarlo Cerutti, Diego Della Valle, Ennio Doris, Gianfranco Zoppas, ecc. Significative, pero’, anche le firme che mancavano: quella del presidente di Confindustria dell’epoca, Giorgio Fossa, e del suo precedessore, Luigi Abete, ma anche quelle di Pietro Marzotto, di Leopoldo Pirelli, di Michele Ferrero. A riprova che non tutta l’imprenditoria nazionale riteneva corretto abolire quel particolare reato che punisce chi falsifica i propri bilanci rendendo impossibile valutare correttamente lo stato di salute di una azienda.

Sta di fatto pero’ che l’appello di Cuccia & C. venne raccolto, nel 2001, da Silvio Berlusconi: appena tornato al governo, come primo atto procedette all’abolizione del fastidioso reato, venendo cosi’ incontro incontro ai suoi personali interessi (essendo sotto scacco per le inchieste All Iberian sulla contabilita’ parallela della Finvest) ma anche, evidentemente, a quelli di una notevole parte del mondo economico. Oggi, alla vigilia delle elezioni politiche piu’ incerte della storia, gli schieramenti del centro sinistra, cosi’ come i centristi che fanno capo a Monti, promettono che in caso di vittoria il loro primo atto sara’, appunto, il ripristino del reato. Vedremo. Se questo avverra’ realmente, vorra’ dire che finalmente si e’ preso atto di una non secondaria faccenda: e cioe’ che se l’Italia da vent’anni non cresce e non attira investimenti esteri, forse non e’ solo colpa dell’articolo 18, o dei tassisti/farmacisti corporativi, e nemmeno del costo del lavoro ma che, come ha dichiarato l’Emiro del Quatar nella primavera 2012, durante un incontro a Palazzo Chigi col nostro governo: ‘’L’Italia e’ un bellissimo paese, ci piacerebbe molto fare affari con voi, ma, purtroppo, avete troppa corruzione’’. Troppa, appunto, anche per il Quatar.

 

(dal diario del lavoro)

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