In ogni epoca e in ogni ambiente sociale esiste una categoria di persone che si mostra sorprendentemente docile, accomodante, quasi devota nei confronti dei più forti, mentre diventa prepotente, svalutante e aggressiva con chi considera più fragile.
Questa apparente contraddizione rappresenta, da un punto di vista psicologico, un tratto caratteriale ben definito e, in molti casi, un segnale di un disagio radicato nella struttura profonda della personalità. La psicoanalisi freudiana offre strumenti preziosi per comprendere la logica emotiva e inconscia che regola tale comportamento.
Secondo Freud, uno dei meccanismi di difesa più attivi in questi individui è lo “spostamento”. Quando un soggetto prova sentimenti di rabbia, invidia o frustrazione verso una figura percepita come potente, la psiche, per evitare il confronto diretto e il rischio di un fallimento o di una punizione, devia quell’emozione verso un bersaglio più innocuo. È un movimento invisibile ma estremamente efficace: ciò che non si può dire al superiore viene detto, con violenza raddoppiata, a chi non ha gli strumenti per difendersi. Questa forma di dominanza al ribasso non nasce quindi da una vera forza, ma dal timore della forza altrui.
A livello più profondo, questo stile relazionale rivela spesso un quadro di narcisismo fragile. Non il narcisismo appariscente e trionfante, ma quello più insicuro, che costruisce la propria immagine non su una solida autostima ma sulla continua ricerca di approvazione.
Un individuo che teme costantemente di essere sminuito o ignorato tende a ingraziarsi chi detiene il potere, sperando in una conferma che possa placare, almeno temporaneamente, la sensazione di inadeguatezza che lo accompagna. Con i deboli, invece, non deve recitare alcuna parte: lì può esprimere la propria irritazione, la rabbia accumulata, la frustrazione non elaborata, convinto che non incontrerà opposizioni.
La teoria psicoanalitica introduce anche un altro fattore chiave: l’identificazione con l’aggressore.
Chi ha vissuto in un ambiente familiare in cui il potere era esercitato in forma autoritaria o umiliante, tende da adulto a replicare quello stesso modello, spesso senza accorgersene. La sottomissione al potente non è solo strategica, è emotiva: rappresenta la riproposizione dell’antico rapporto con la figura dominante, che si continua a temere e allo stesso tempo a idealizzare.
L’arroganza verso i più deboli, invece, diventa un modo per sentirsi momentaneamente dalla parte del potere, un tentativo di sedersi, anche solo per qualche istante, sul trono simbolico di chi un tempo faceva paura.
Nella storia non mancano esempi di personalità che hanno incarnato questo doppio registro. Alcuni gerarchi dei totalitarismi del Novecento si mostravano rigorosamente sottomessi ai loro leader, ai quali tributavano un’ammirazione quasi religiosa, mentre esercitavano con brutalità il potere su individui indifesi, approfittando della propria posizione.
Allo stesso modo, molte figure del mondo politico e aziendale hanno mostrato, nel tempo, una sorprendente deferenza verso chi poteva favorirne l’ascesa, salvo poi trasformarsi in tiranni verso chi non aveva alcuna possibilità di reagire. Questo pattern non è confinato ai grandi scenari della storia: lo si ritrova nei luoghi di lavoro, nelle dinamiche familiari, nelle relazioni sociali quotidiane.
Dal punto di vista sociale, queste persone contribuiscono alla creazione di ambienti instabili, caratterizzati da rapporti verticali e da una costante oscillazione tra sudditanza e dominio. La loro presenza genera spesso paura nei più vulnerabili e irritazione in chi osserva la loro trasformazione repentina a seconda dell’interlocutore.
Dal punto di vista relazionale, esse vivono legami fragili e superficiali, costruiti più su convenienza e calcolo che su autenticità. Faticano a creare rapporti paritari, perché ogni relazione viene automaticamente collocata su un piano gerarchico: qualcuno deve essere sopra, qualcuno sotto. È raro che sperimentino un vero senso di intimità emotiva, poiché la loro struttura difensiva non permette di mostrarsi per ciò che sono senza il timore di essere svalutati.
Questo profilo psicologico, pur essendo diffuso, non è privo di sofferenza. Dietro l’arroganza con i deboli si nasconde la paura di non valere abbastanza; dietro la servilità verso i potenti si cela il terrore del giudizio. La psicoanalisi insegna che solo accedendo a questo nucleo interno ferito, e riconoscendo la natura inconscia dei propri comportamenti difensivi, è possibile sciogliere il meccanismo e costruire relazioni finalmente basate sulla reciprocità e non sul timore.



