2014, un anno per combattere il populismo

ROMA – Un anno all’insegna dell’Europa e delle grandi svolte da realizzare: sia sul piano nazionale sia, soprattutto, in un contesto europeo e globale sempre più frastagliato. Ma anche l’anno dell’auspicata ripresa economica e del ritorno alla crescita cui, purtroppo, sappiamo fin da ora che non farà seguito la creazione di nuovi posti di lavoro e la conseguente diminuzione del tasso di disoccupazione, in particolare fra i giovani.

Un anno di lotte e di tensioni, dunque, all’insegna dell’incertezza e dell’instabilità, delle aspettative e delle speranze, di una politica che dovrà cambiare radicalmente se vorrà avere ancora un senso e una funzione sociale e di una sinistra che dovrà ritrovare la propria anima e porre di nuovo al centro temi cruciali quali l’occupazione, il rispetto dei diritti umani e l’ambiente se non vorrà essere fagocitata dal grillismo, dal forconismo e da tutte le altre forme di populismo e demagogia spicciola che tanto risalto stanno avendo sui media in queste settimane.

Dodici mesi intensi e tutti da vivere

Questo, in poche parole, è il 2014 che ci aspetta: dodici mesi intensi e tutti da vivere, nei quali starà a ciascuno di noi far sì che la marea montante dell’anti-politica e del risentimento non rompa gli argini, sfociando in un gigantesco voto di protesta alle Europee di maggio che, di fatto, paralizzerebbe il Parlamento europeo, vanificando ogni sforzo dello schieramento progressista per tentare di invertire la rotta rispetto alla legislatura dell’austerità e dell’intollerabile rigore fine a se stesso.

Per questo, ci auguriamo innanzitutto che l’intera sinistra riformista, dalla Scandinavia al martoriato Mediterraneo, sostenga con convinzione la sfida di Martin Schulz per la conquista della presidenza della Commissione europea. A tal proposito, sappiamo bene qual è l’obiezione che viene mossa a chi si occupa di questi temi: voi parlate di poesia, di filosofia e di speranza mentre la gente muore. Ora, posto che non c’è niente di male nell’occuparsi di questi tre nobilissimi argomenti, il punto è un altro: con quest’affermazione si tenta, in realtà, di dimostrare che la sinistra è inadatta a governare perché è tanto abile con le parole quanto inconcludente a livello pratico.

Tralasciando le considerazioni da campagna elettorale, la realtà è che è vero esattamente il contrario: senza parole chiare, precise ed efficaci, senza un’ideologia e un orizzonte ben definito verso cui tendere, nessuna forza politica ha alcuna possibilità di far affermare il proprio pensiero o anche solo di esprimere un pensiero compiuto, tanto meno a sinistra dove le risorse a disposizione sono di meno e i punti di contatto con la disperazione sociale e materiale del Paese assai maggiori.

La sinistra deve cambiare profondamente e ripensarsi alla radice

Perché è corretto ciò che affermano i sostenitori del rinnovamento, ossia che, se vuole sopravvivere e attrarre quei vasti settori dell’elettorato che da anni le hanno voltato le spalle o non si sono mai sentiti attratti dalle sue proposte, la sinistra deve cambiare profondamente e ripensarsi alla radice; tuttavia, è altrettanto giusto ciò che scrive Alfredo Reichlin in un mirabile articolo apparso giovedì scorso su “l’Unità” e intitolato: “Senza la sinistra il mondo è a rischio”. Asserisce, infatti, Reichlin: “Cosa vuol dire oggi sinistra? Ecco perché io non rimpiango il passato. Perché non conosco altro metro di misura che non sia l’analisi dei processi reali in cui la lotta politica si colloca essendo questi processi – e solo questi – che ne determinano l’esito e la definiscono. È per questo che continuo a pensare che la sinistra avrà un futuro. Ma la condizione è che riesca a ricollocarsi al centro dello scontro, un centro che travalica i confini e i territori. La posta in gioco è altissima. Più alta di quella che oppose nel Novecento la destra alla sinistra (i diritti del lavoratore, una più giusta distribuzione del reddito, l’estensione della democrazia politica fino a includere nuovi diritti sociali, la diffusione del benessere). Adesso la partita è più vasta, è la creazione di un nuovo attore politico globale capace di contrastare la deriva catastrofica che può innescarsi se non si darà una risposta a nuovi bisogni di libertà e al tempo stesso di sicurezza e di democrazia, delle nuove generazioni.

 

Un nuovo umanesimo nel segno della giustizia

Insomma, il mondo è a rischio se non c`è una forza che risolve quel vecchio dilemma: il vecchio (cioè il dominio spietato della finanza globale) non può più. Un nuovo umanesimo, che abbia il segno della giustizia non può ancora”.

E qui si torna a Gramsci, all’eterno limbo fra il “non più” e il “non ancora”, fra ciò che non ha più alcuna ragione di esistere in un contesto socio-economico globalmente mutato rispetto a venti-trent’anni fa e ciò che vorrebbe affermarsi ma non ci riesce in questa lunghissima transizione italiana.

Ma qual è il motivo? Perché la sinistra, pur essendosi riorganizzata, pur avendo eletto da poco un segretario giovane, innovativo e qualcuno dice ricco di entusiasmo, continua a far fatica ad entrare in sintonia con il cosiddetto “Paese reale”, con coloro che non possono più aspettare, con quei vasti strati della popolazione che faticano anche solo a immaginare un domani e oramai iniziano a solidarizzare con movimenti magari distanti anni luce dal loro modo di interpretare le grandi questioni sociali dell’uguaglianza e della solidarietà che investono il nostro tempo ma che comunque appagano il loro desiderio di vendetta, la loro volontà, maturata in anni di delusioni e umilianti sconfitte, di sfogare tutta la propria rabbia contro una politica considerata inetta e castale cui imputano le responsabilità del proprio fallimento esistenziale?

A nostro giudizio, l’effettiva ragione è una sola: la sinistra, non solo in Italia, da almeno trent’anni non ha più il coraggio di coltivare una propria “egemonia” culturale, di affermare una propria scala di valori e di opporsi con la dovuta fermezza alla deriva liberista che ha distrutto l’umanità e privato i lavoratori della propria dignità e dei propri diritti.

Solo così possiamo interpretare e offrire una spiegazione logica allo sterile dibattito che si è aperto in questi giorni sull’articolo 18, considerato oramai obsoleto e non al passo coi tempi da coloro che non hanno capito che quelle norme sono il cardine della nostra democrazia, ciò che salda le leggi ordinarie alla Costituzione, il frutto di scioperi e lotte sindacali costate il sangue a migliaia di persone e, più che mai, il compimento di un percorso che va dalla concezione del lavoratore come macchina produttiva all’idea del lavoratore come persona, situata all’interno di un contesto sociale più ampio, dotata di una cittadinanza che nasce dal rapporto armonico fra diritti e doveri, tutele e compiti.

 

Alla sinistra manca il coraggio

La sinistra, pertanto, perde perché è troppo tempo che le manca il coraggio delle parole; perché è troppo tempo che si è rassegnata a risalire l’onda della democrazia degli slogan e del vuoto pneumatico di concetti, analisi ed elaborazioni politiche; perché, in pratica, ha iniziato col guardarsi allo specchio e rimirare una diversità morale che, forse, era vera ai tempi di Berlinguer ma, di sicuro, non lo è più adesso.

E intanto il Paese affonda, le stime del Centro studi di Confindustria parlano di un regresso addirittura ai giorni dell’immediato dopoguerra e le giovani generazioni maturano la certezza di dover emigrare all’estero per far valere i loro diritti e, possibilmente, le loro qualità.

Perché la sinistra non perde a causa di ciò che dice o di una certa anzianità di servizio della propria classe dirigente bensì per i propri silenzi e per l’incapacità di quella classe dirigente di costituirsi, tuttora, degli eredi in grado di portare avanti i loro messaggi e le loro battaglie utilizzando le forme comunicative consone alla realtà contemporanea.

Sarà, dunque, molto interessante seguire l’operato del governo Letta, la complessa coabitazione del Premier con un Renzi sempre più scalpitante e tentato dal tornare al voto già nel 2014 e la reazione scomposta e volgare, ma che senz’altro ci sarà, delle formazioni che lucrano consensi sull’ansia, sulla rabbia e sulla disperazione crescenti.

Abbiamo, comunque, un anno per combatterli e sconfiggerli in regolari elezioni; dopo, qualunque cosa accada, sarà troppo tardi, e allora non ci rimarrà altro che riflettere sulle occasioni perdute e sulle troppe volte che avremmo potuto e dovuto assumere comportamenti e decisioni esattamente opposti a quelli che abbiamo preso sul momento.

Sta alla sinistra italiana e mondiale decidere se sprecare o meno questo tempo, se contrastare e invertire drasticamente la rotta rispetto a un modello di sviluppo che ha causato ovunque solo devastazioni o continuare a baloccarsi con espressioni assurde quali il “capitalismo buono” o i “capitalisti dal volto umano”.

Come diceva Gramsci: un mondo è finito, un altro non è ancora sorto. Sta alla sinistra colmare quel vuoto: se dovesse fallire per l’ennesima volta, non avrebbe poi il diritto di lamentarsi nel momento dello sfascio definitivo.

 

 

 

 

 

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