Berlusconismo renziano

ROMA – In attesa di andare oltre le slide di Palazzo Chigi e di leggere i numeri reali della Legge di Stabilità 2016, a cominciare dalle coperture finora ignote, possiamo dire che un’idea del “mostro” col quale dovremo fare i conti nei prossimi mesi ce la siamo fatta.

Un mostro, per l’appunto: un insieme di norme di chiara marca berlusconiana che difficilmente l’Europa apprezzerà e sulle quali, al contrario, da Bruxelles piovono già velate critiche che rischiano di trasformarsi in un dramma nazionale nel caso in cui le misure elettorali del Presidente del Consiglio dovessero contrastare eccessivamente con il buonsenso e i parametri comunitari.

Ora, intendiamoci: nessuno di noi è mai stato un amante dell’austerità o un sostenitore del rigore e, anzi, abbiamo sempre apprezzato quelle poche personalità di caratura veramente europea che, talvolta, hanno avuto il coraggio di battere i pugni al cospetto dei tecno-burocrati privi di qualunque mandato elettorale; da qui ad apprezzare i toni di Renzi, però, ce ne passa. Asserire, infatti, che in caso di bocciatura, il governo italiano ripresenterà la medesima manovra, oltre ad essere intollerabile dal punto di vista diplomatico, è anche palesemente assurdo, in quanto il nostro eroe sa benissimo che le regole europee non possono essere stravolte a piacimento, in base alle esigenze elettorali di questo o quello schieramento di governo, e che, pertanto, un’eventuale bocciatura avrebbe conseguenze gravissime e ricadute tangibili sulla vita di tutti noi nonché sul già scarso prestigio e sulla già bassa credibilità del nostro Paese in ambito internazionale.

Perché l’Europa avrà pure mille difetti, trattati da riscrivere da cima a fondo, una moneta senza Stato e un eccessivo peso del Consiglio europeo rispetto alla Commissione e al Parlamento, dunque un evidente deficit di democrazia; sarà pure matrigna, mal governata e guidata da commissari guerrafondai e ultra-liberisti; avrà pure dei vincoli anacronistici e sbagliati come quello del 3 per cento stabilito a Maastricht quando Renzi andava ancora al liceo, ma su alcuni punti ha perfettamente ragione. Ha ragione quando ci dice che è preferibile tassare la rendita e il patrimonio e detassare il lavoro per favorire l’occupazione, rilanciare le imprese e la produttività e creare un circolo virtuoso in grado di evitare il fenomeno pericolosissimo della desertificazione industriale; ha ragione quando ci dice di combattere attivamente e senza tregua la piaga della corruzione; ha ragione quando ci invita a ridurre sia il deficit che il debito pubblico, in quanto costituiscono entrambi dei pesantissimi fardelli che andranno a gravare sul futuro delle nuove generazioni e ha ragione, infine, quando ci fa presente che in Italia non sono tanto i soldi a mancare quanto delle classi dirigenti oneste e preparate in grado di amministrarli a dovere nonché un senso civico, una cultura dell’onestà e uno spirito di nazione in linea con la media degli altri paesi occidentali.

Ebbene, qual è stata la risposta del nostro governo? Via la TASI per tutti, compreso chi abita nel famoso attico a piazza Navona, quindi avrebbe il dovere morale di pagarla; innalzamento a 3.000 euro della soglia dei pagamenti in contanti; tagli feroci alla sanità e agli enti locali; una spending review talmente ridicola da aver indotto il professor Perotti a tornarsene alla Bocconi e una serie di favori a Confindustria, la quale, nonostante tutto, per voce del presidente Squinzi, ha sì apprezzato la manovra nel suo complesso ma l’ha comunque accolta con una certa freddezza.

Per il resto: poco o nulla per i lavoratori, poco o nulla sul versante dei rinnovi contrattuali, poco o nulla per il Sud, poco o nulla per l’emergenza povertà e non certo quanto sarebbe necessario sul versante della cultura, dell’istruzione e dell’innovazione. Ma perché tutto questo? Perché il governo ha varato una manovra così indigeribile da indurre persino il moderatissimo Bersani a parlare di una fotocopia delle vecchie finanziarie di Tremonti? Perché Renzi, con il combinato disposto di questa Legge di Stabilità, delle riforme istituzionali e costituzionali e delle imminenti norme su giustizia e intercettazioni, sta costituendo di fatto la Coalizione, se non addirittura il Partito, della Nazione.

Esigenze elettorali in vista delle Amministrative e del referendum confermativo dello stravolgimento della Carta del ’48, certo, ma soprattutto la necessità di rendere strutturale l’alleanza con Alfano e Verdini in vista delle uniche elezioni che interessino davvero al Premier: le Politiche, dove il PD sarà chiamato a consolidare il nuovo blocco sociale e di potere che gli ha costruito intorno il suo segretario-premier.

Tutte le misure attuate nell’ultimo anno – dallo Sblocca Italia al Jobs Act, dall’Italicum alla riforma della Costituzione, fino alla Buona Scuola e a questa Legge di Stabilità – vanno nella direzione di approfittare del vuoto che si è venuto a creare nel centrodestra per dar vita a un nuovo centrodestra che abbia nel PD il suo punto cardine, con qualche annuncio e qualche legge spot qua e là dal vago sapore progressista (lo Ius Soli, gli 80 euro ecc.) per tener buona una base alla quale ogni tanto qualche commentatore gufo e rosicone ricorda che il PD era nato, nel 2007, per essere l’erede del progetto ulivista di Prodi, non della Forza Italia berlusconiana.

E basta guardare da dove provengono i maggiori applausi alle riforme renziane per rendersi conto di chi siano i suoi principali sostenitori: Confindustria, CL, il mondo economico, bancario e finanziario, le lobby, determinati investitori internazionali e tutti quei soggetti con i quali un partito di centrosinistra dovrebbe aprire un fisiologico e sacrosanto conflitto, essendo il rappresentante naturale di statali, insegnanti, giovani, precari, mondo pacifista e ambientalista e di quella parte del mondo industriale che si riconosce negli ideali di Adriano Olivetti e fa fatica ad apprezzare il marchionnismo imperante.

Il guaio, e questo Bersani l’ha capito perfettamente, e ormai lo dice anche in maniera quasi esplicita, è che questo PD a trazione renziana non ha più nulla a che spartire né con le sue radici novecentesche né con le sue radici uliviste, essendosi verificato né più e né meno che un trasferimento di blocchi di potere dall’universo berlusconiano a quello del nuovo dominus e della sua compagine di governo, con Alfano che giustamente non sta più nella pelle per il fatto che, grazie all’abbandono dell’ex Cavaliere al suo destino, sta realizzando tutti i sogni che finché è esistita una dialettica democratica fra destra e sinistra gli era stato impedito di coronare.

Adesso mancano solo il Ponte sullo Stretto e un bel maxi-condono edilizio, ma i maligni sostengono che se ne stia già parlando e, anche se noi ci rifiutiamo di credere che il rignanese possa arrivare a tanto, una vocina interiore ci ricorda che gli ex fedelissimi di Berlusconi non sono degli ingenui e che se hanno scelto di sostenere questo progetto politico con tanto vigore è perché sanno qual è la meta e l’orizzonte verso cui tende: l’opposto di tutto ciò che avevano sognato, sperato e per il quale avevano votato, nel 2013, coloro che, al pari di Bersani, avrebbero voluto costruire un’Italia giusta.

 

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