La necessità di salvare Israele da se stesso

ROMA – Le ultime deliranti affermazioni con le quali il premier israeliano Netanyahu ha compiuto un atto di revisionismo storico, rovesciando le colpe dell’Olocausto sulle spalle del non certo commendevole Gran muftì Haj Amin al-Husseini, rendono palese, se ancora ce ne fosse bisogno, che l’unico, vero nemico di Israele è la sua pessima classe dirigente.

Spiace dirlo, anche perché da queste parti siamo abituati a rispettare le libere scelte dei popoli, ma quando nel marzo scorso gli israeliani hanno deciso di affidarsi nuovamente al Likud e ai suoi degni compagni d’avventura, mettendosi nelle mani di questo guerrafondaio senza visione e senza strategia, diplomaticamente incapace, umanamente meschino e politicamente disastroso, quando hanno compiuto questo gravissimo errore, hanno messo involontariamente a repentaglio le loro stesse vite.

Se ora si parla di Terza Intifada, ribattezzata anche “Intifada dei coltelli”, dopo quelle dell’87 e del 2000, la colpa va infatti ricercata nella politica colonialista e stupidamente espansionistica di un uomo che, anziché tentare di trovare dei punti d’incontro e di mediazione con Abu Mazen e il popolo palestinese, ha deciso di procedere a testa bassa, incentivando di fatto i coloni a proseguire nella loro azione di esproprio dei territori arabi e trasformando Gerusalemme e la Cisgiordania, per non parlare poi della Striscia di Gaza, in un teatro di guerra permanente.

Non a caso, anche un uomo molto prudente come Barak Obama, da sempre cauto nei giudizi su quanto avviene in Medio Oriente e non certo ostile alle ragioni del popolo ebraico, ha più volte condannato i metodi di governo di un soggetto che, con la sua rozza e spregiudicata tracotanza, rischia di destabilizzare ulteriormente una regione già ridotta a una polveriera.

Al tempo stesso, non è un caso che i repubblicani, ormai precipitati in un baratro di arretratezza culturale e politica impensabile fino a qualche anno fa, abbiano invitato Netanyahu a parlare al Congresso in segno di sfregio al presidente Obama, nella speranza di conquistare i consensi della potente lobby ebraica in vista delle Presidenziali del prossimo anno. Una mossa sbagliata sotto due punti di vista: innanzitutto, perché il premier israeliano non è certo un soggetto in grado di attrarre consensi al di fuori del suo Paese, che ha opportunamente terrorizzato per raggiungere lo scopo; in secondo luogo, ma questo all’epoca non potevano saperlo, perché dopo un’affermazione grave come quella che, sostanzialmente, fornisce una giustificazione a Hitler per l’attuazione della “soluzione finale” ai danni del popolo ebraico, un personaggio del genere è diventato indifendibile anche agli occhi di molti ambasciatori israeliani e persino delle comunità ebraiche più retrive.

Cosa significa tutto questo? Per il popolo ebraico, purtroppo, è una tragedia, in quanto nei prossimi mesi si troverà a dover fare i conti con un crescente isolamento, una diffidenza montante e, temiamo, anche con il disprezzo di quella parte della comunità internazionale che finirà col pensare che sì le violenze degli arabi sono inaccettabili, al pari di qualunque altra forma di violenza, ma che in fondo sono anche comprensibili al cospetto di un regime dispotico e oppressivo come quello instaurato dall’estrema destra israeliana.

Solitudine, sbandamento, disperazione, sconforto e sete di vendetta, anche a costo di sacrificare la propria stessa vita: sono questi i sentimenti che animano gli attentatori protagonisti di questa terza esplosione di ferocia irrefrenabile; una barbarie, certo, una targedia in nessun modo giustificabile, ci mancherebbe altro, ma se vogliamo che l’analisi minuziosa dell’argomento prevalga sulla superficialità delle opposte tifoserie non possiamo negare che questo senso di sbandamento totale, quest’idea di non avere più nulla da perdere e questa disponibilità a compiere gesti riprovevoli pur di sfogare la propria rabbia e lanciare un messaggio di sfida a Netanyahu e a chi condivide la sua aberrante visione del mondo è, tutto sommato, comprensibile.

Cosa è rimasto a chi dal ’67 si è visto umiliato e confinato, ridotto in miseria e sottoposto ad ogni sorta di vessazione? Cosa è rimasto ad un popolo costretto a fare i conti con un vicino che gode di ricchezze e appoggi internazionali incredibili e ne approfitta a piene mani per imporre la legge del più forte, a causa della miopia delle sue classi dirigenti, specie da dopo la morte di Rabin in poi? Cos’hanno da perdere i ragazzi o le donne che si armano di un coltello e cercano di uccidere il primo ebreo che gli capiti a tiro? Niente, questa è l’atroce risposta ai quesiti appena posti.

E non si può continuare a nascondere l’evidenza dietro il comodo velo ipocrita dei due popoli-due Stati: una soluzione ottimale, se non fosse che i primi a non volerla sono Netanyahu e la destra fanatica israeliana da anni al potere. Così come non si può continuare a tacciare di antisemitismo o di giustificazionismo verso la barbarie chiunque, pur condannando senza appello la medesima, da qualunque parte provenga, cerchi di mettersi nei panni della parte più debole, di chi si è visto bombardare la propria casa, espropriare il proprio terreno e calpestare  le proprie speranze e i propri sogni di libertà in maniera selvaggia e disumana.

Qui non si tratta di essere pro o contro Israele, pro o contro i palestinesi, pro o contro la violenza: la violenza è sempre da condannare, Israele ha tutto il diritto di esistere e di vivere in pace e i palestinesi pure. Qui si tratta, al contrario, di salvare lo Stato ebraico da se stesso, dalla propria deriva fondamentalista e da vertici inadeguati, irrispettosi della vita e della dignità umana e anche piuttosto ignoranti dal punto di vista storico e strategico.

In poche parole, si tratta di convincere il popolo israeliano a mandare presto a casa chi lo costringe a vivere nel terrore e a imboccare nuovamente la via che fu intrapresa da Rabin nei primi anni Novanta, seguendo e attuando concretamente il messaggio di conciliazione e di speranza lanciato, nel giugno dell’anno scorso, da papa Francesco durante un incontro multireligioso di preghiera che coincise con l’ultimo momento di distensione e di confronto prima della scrittura di un altro, devastante capitolo di questo libro dell’odio che si protrae ormai da quasi settant’anni.

L’auspicio è che Hillary Clinton, probabile futura inquilina della Casa Bianca, prosegua lungo la strada intrapresa da Obama, soprattutto per quanto riguarda i rapporti con un altro arcinemico di Netanyahu quale il regime di Teheran, al fine di render chiaro a chi non se ne fosse ancora accorto non solo l’uso strumentale della storia ma anche l’assenza di una qualunque visione e di un qualunque progetto politico da parte di un uomo che, per consolidare il proprio potere, è costretto a crearsi continuamente dei nemici, mettendo a repentaglio la sicurezza e l’incolumità di chi, erroneamente, gli ha dato fiducia.

 

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