Lotta al terrorismo, serve unità

ROMA – Unità. Non può che essere questa la parola d’ordine in giorni così difficili.

Unità della gente comune, unità delle forze politiche, delle istituzioni, unità degli stati, unità dell’Europa. Questa guerra al terrorismo si vince solo restando uniti. Perché stavolta tutto è diverso, non ci sono confini territoriali che tengano. La guerra non riguarda solo iracheni e siriani. Sì, lì c’è un fronte, ma qui ce n’è un altro, forse più pericoloso, devastante. Ogni città adesso è esposta, ogni paese. 

Leggiamo sui giornali, vediamo in tv che è una guerra di religione e di civiltà. Sì lo è. L’Islamic State of Iraq and Al Sham, l’Isis, oggi semplicemente Is, si nutre di un’ideologia integralista che ha origini antiche. Per questo anche i Paesi arabi che in teoria non appoggiano il Califfato, alla fine non riescono a liberarsi dai legami che hanno con esso. Come l’Arabia Saudita. Riad è tra i paesi che fanno parte della coalizione anti-Isis, eppure figura tra quelli che per altre strade lo appoggia. L’ideologia dello Stato islamico, che era poi quella di Al Qaeda solo con qualche differenza, è a sua volta l’ideologia dei Wahhbiti. Abd al Wahhab predicava la guerra santa, l’eliminazione degli infedeli, la distruzione degli sciiti. Quell’ideologia è parte integrante della storia e della tradizione religiosa saudita, sradicarla è impossibile. E tutta quell’area del mondo è imperniata di antichi conflitti religiosi e politici, che si annidano nelle viscere, determinandone sorti devastanti. Come in Siria oggi, dilaniata da una guerra terribile appunto tra sunniti e sciiti. Un odio atavico, che prende tante strade, a volte religiose, altre politiche, ma che non affonda le sue radici solo in differenze etniche, religiose, di tradizioni.

La verità è che quell’odio si nutre anche di povertà, del fatto che intere popolazioni sono senza diritti, senza speranza di una vita migliore, senza dignità sociale. Un terreno fertile per chi cerca un riscatto, o di rendere la vita degna di essere vissuta, nel modo più paradossale possibile, attraverso la morte. Così quella guerra tanto distante, laggiù in Siria e in Iraq, diventa vicinissima, ci arriva in casa. Giovani musulmani cresciuti in Europa imbracciano le armi. Diventano integralisti, kamikaze e portatori di terrore, conoscono anche loro degrado, povertà, emarginazione, ma qui in occidente. Nelle banlieue parigine, ad esempio. E’ lì che si sentono fuori dalla società, reietti. In Allah allora cercano la salvezza, un senso. Diventano fanatici, esaltati, nel suo nome uccidono. A Parigi soprattutto giovani. Ragazzi che sono al Bataclan per passare qualche ora spensierata, o allo stadio a vedere la partita, o a magiare qualcosa con gli amici. Giovani vite come le loro. 

Allora sì, diciamo che questa guerra è di civiltà e di religione. Ma ammettiamo che è anche altro. Che come tutte le guerre si alimenta di ciò che di più basso esiste nell’animo umano, della sua parte peggiore. Dove ci sono emarginazione e miseria il terrorismo è più forte, fa adepti facilmente, trova seguaci pronti a morire perché non è la morte che fa paura ma la vita. Allora è impensabile che il ricco e ‘illuminato’ occidente non comprenda che bisogna agire su più fronti. Da giorni ascoltiamo fiumi di parole. Chi vuole l’intervento militare immediato, chi no, chi raccoglie il guanto di sfida dei terroristi e chi invita alla cautela. Un potpourri di retorica, a volte di improvvisazione. Intanto il linguaggio cambia, persino nelle parole del presidente francese Francois Hollande. “Saremo spietati”, ha detto. Agghiacciante. Parole di pancia, speriamo, non di testa. 

Noi ci auguriamo che contro la rabbia e l’odio di queste ore di angoscia prevalga il buon senso. Che si smetta di vendere armi a stati che appoggiano l’IS; e di fare accordi commerciali ed economici con paesi che fiancheggiano i terroristi e che hanno al loro interno un assetto sociale deteriorato da disparità e disuguaglianze insopportabili. Che si capisca che il lavoro più importante in questo momento non lo possono svolgere le armi, almeno non da sole, ma le forze di intelligence. E che l’unità politica e di intenti dei paesi coinvolti sarà fondamentale. Ognuno dovrà fare la sua parte. A partire dall’Islam moderato. Gli attentati di Parigi non parlano solo all’occidente, ma anche a quella parte di paesi musulmani che non seguono la strada fondamentalista. A loro tocca un ruolo molto importante in questa tragica partita. 

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