Saviano, “Gomorra” e l’importanza del giornalismo

ROMA – “Gomorra”, dieci anni fa. Da allora non è cambiata solo la vita di un ragazzo, all’epoca poco più che ventenne e oggi ancora relativamente giovane, nonostante un’esperienza, una solidità e un bagaglio culturale fuori dal comune; siamo cambiati anche noi, al pari della nostra percezione del fenomeno criminale, della nostra sensibilità e della nostra attenzione nei confronti di argomenti che un tempo tendevamo, onestamente, a lasciar scivolare via, ritenendo erroneamente che non ci appartenessero.

Questioni campane, questioni siciliane, al massimo questioni pugliesi e calabresi: questo pensavamo e ci ripetevamo l’un l’altro, con un tasso di conoscenza del fenomeno mafioso solo leggermente superiore alla percezione che se ne aveva ai tempi di Sciascia e di Danilo Dolci, quando in Sicilia la parola “mafia” non si poteva neanche pronunciare e autorevoli esponenti del mondo politico e intellettuale ribadivano che non esistesse e che si trattasse, al massimo, di fenomeni banditismo locale.

Poi è uscita l’opera di questo ragazzo, a metà fra il reportage giornalistico, il romanzo, la narrazione lirica e l’invettiva dantesca, una sorta di Fallaci del Ventunesimo secolo, proprio nell’anno in cui Oriana ci diceva addio, e come ha asserito il procuratore capo di Reggio Calabria, Federico Cafiero De Raho, da quel momento è diventato impossibile voltare la testa dall’altra parte e fare finta di niente.

E l’aspetto più positivo è che sono stati soprattutto i giovani a farsi paladini di questa battaglia, iscrivendosi e partecipando in massa alle attività di Libera di don Ciotti, acquistando e leggendo i libri di Saviano, seguendo i programmi televisivi che lo hanno visto protagonista e schierandosi apertamente dalla parte della legalità, della giustizia e della lotta contro il malaffare e la criminalità organizzata. Inoltre, quegli stessi giovani hanno il merito, tutt’altro che secondario, di aver ripreso, dopo almeno due decenni di apatia, a battersi a viso aperto in difesa dei beni comuni, costringendo la classe politica a fare i conti con l’idea che la storia non sia affatto finita dopo il crollo del Muro di Berlino, come teorizzò a suo tempo il politologo americano Francis Fukuyama, e che il modello ultra-liberista, favorevole all’aumento del debito pubblico, delle disuguaglianze e della mortificazione del lavoro, non sia più sostenibile.

Perché, in fondo, nelle battaglie di Roberto Saviano, di Rosaria Capacchione e di quanti come loro, sia pur meno noti, meno invitati, meno difesi e meno posti sotto i riflettori, rischiano spesso la vita per svolgere degnamente il proprio mestiere di informare, in queste battaglie la nostra generazione ritrova il senso, il valore e l’orgoglio di una dignità altrove perduta, troppo spesso calpestata, a lungo derisa e umiliata.

Del resto, è in questo afflato pasoliniano che molti ragazzi hanno riscoperto la bellezza e direi quasi la poesia dell’impegno politico: “Io so e ho le prove. So come è stata costruita mezz’Italia. E più di mezza. Conosco le mani, le dita, i progetti. E la sabbia. La sabbia che ha tirato su palazzi e grattacieli. Quartieri, parchi, ville. A Castelvolturno nessuno dimentica le file infinite dei camion che depredavano il Volturno della sua sabbia. Camion in fila, che attraversavano le terre costeggiate da contadini che mai avevano visto questi mammut di ferro e gomma. Erano riusciti a rimanere, a resistere senza emigrare e sotto i loro occhi gli portavano via tutto. Ora quella sabbia è nelle pareti dei condomini abruzzesi, nei palazzi di Varese, Asiago, Genova. Ora non è più il fiume che va al mare, ma il mare che entra nel fiume. Ora nel Volturno si pescano le spigole, e i contadini non ci sono più. Senza terra hanno iniziato ad allevare le bufale, dopo le bufale hanno messo su piccole imprese edili assumendo giovani nigeriani e sudafricani sottratti ai lavori stagionali, e quando non si sono consorziati con le imprese dei clan hanno incontrato la morte precoce. Io so e ho le prove. Le ditte d’estrazione vengono autorizzate a sottrarre quantità minime, e in realtà mordono e divorano intere montagne. Montagne e colline sbriciolate e impastate nel cemento fioriscono ovunque. Da Tenerife a Sassuolo. La deportazione delle cose ha seguito quella degli uomini”.

Un linguaggio schietto, asciutto, incisivo, un incedere potente della parola e del pensiero, un imprimersi sul foglio e nella mente dei lettori di concetti aspri, difficili da digerire e impossibili da dimenticare, fino a creare un effetto ipnotico, a lasciare senza fiato, ad indurre chi ha letto il libro a discuterne, a regalarlo, a trasformarlo in un fenomeno editoriale non per esaltare la figura di Saviano o per farne un eroe o un martire della libertà d’espressione ma semplicemente perché, dopo aver letto certe analisi, è impossibile restare indifferenti e, oltretutto, si trova finalmente una bandiera da seguire, un modello da imitare, un punto di riferimento in una stagione nella quale la politica sembra aver prodotto unicamente affarismo e omologazione.

Per questo “Gomorra” ha iniziato a fare paura ai boss del casertano: perché ha messo in moto un istinto collettivo di ribellione che ha varcato i confini della Campania e ha fatto scuola, perché ha indicato una strada alternativa, perché è uno dei libri più politici e densi di passione civile che siano mai stati scritti, perché quando leggi una qualunque riflessione di Saviano, poi ti viene voglia di prendere una penna, un tablet, uno smartphone, una tastiera di computer e di cominciare a scrivere, a tua volta, “con le nocche”, esprimendo la feroce rabbia che hai dentro, la tua voglia di lottare, il tuo desiderio di produrre un grido che vada al di là della mera azione di protesta.

Saviano, e come lui molti cronisti che vivono e lavorano in terra di frontiera, non ha dato fastidio per ciò che ha scritto in prima persona ma per ciò che avrebbero scritto gli altri leggendolo, per i ragazzi che avrebbero iniziato a chiedersi chi fosse Peppino Impastato, chi fosse Giancarlo Siani, chi fosse Mauro De Mauro, quale sia stato il ruolo storico de “L’ora” di Palermo nella lotta alla mafia, quale sia il vero volto delle organizzazioni malavitose e quanto esse siano ramificate. Saviano ha dato fastidio perché ha avuto il coraggio di salire sul tavolo e di restare in piedi a testa alta, come in quella memorabile scena de “L’attimo fuggente”, e dopo di lui si sono alzati altri colleghi, sono arrivate le televisioni e una terra nota per la sua omertà e la sua accondiscendenza ha smesso di essere tale e ha deciso che il destino non fosse affatto ineluttabile.

Dieci anni fa, a nostro giudizio, le parole del senatore D’Anna avrebbero suscitato al massimo qualche reazione in ambienti d’élite; oggi il senatore D’Anna è stato subissato di critiche, al punto che finanche Verdini è stato costretto a scusarsi pubblicamente per le affermazioni inqualificabili del suo senatore. 

E qui si comprende il senso profondo, la ragione stessa di esistere del giornalismo con la schiena dritta, in quest’epoca di avvicendamenti alla guida delle grandi testate e di future nomine alla RAI, di cordate editoriali contrapposte, nelle idee e nelle prospettive politiche per il futuro, che si contendono il Corriere della Sera e di lotte all’ultimo sangue per accaparrarsi i lettori in cerca di uno spazio di libertà e di autonomia di pensiero che sempre più spesso, talvolta anche ingenuamente, si rivolgono alla rete. 

Di recente, nell’introduzione alla nuova edizione del suo testo simbolo, Saviano ha scritto: “Non credo più nel concetto astratto di giustizia, una giustizia in nome della quale l’umanità ha commesso i crimini peggiori. No, non ci credo più. Credo, invece, e con tutto me stesso, nel bene compiuto dal singolo, occhi negli occhi, mano che aiuta mano. Ho perso, dopo Gomorra e in questi dieci anni, ogni sorta di ingenuità e ogni fede nel cambiamento sociale, ma continuo a nutrire una speranza quasi dogmatica, quella che il racconto di una storia possa ancora salvare, nell’uomo, quanto di umano ci sia”.

Perché non è affatto vero che il buon giornalismo, il giornalismo d’inchiesta e di denuncia, il giornalismo capace di indignarsi e di suscitare indignazione, il giornalismo autonomo e indipendente, vero e rischioso ai limiti del sacrificio personale, non è affatto vero che questo genere di giornalismo infanghi i luoghi di cui denuncia, il più delle volte, la bellezza e la drammaticità: semmai è vero il contrario, ossia che aiuta a separare le due cose, consentendo a chi ha ancora la forza di credere in un sogno e di non arrendersi di restare umano e di continuare la sua lotta.

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