Ora che se n’è andato anche Muhammad Ali, con la sua grandezza, la sua forza, il suo coraggio e il suo strazio fisico, ci pervade un senso di solitudine difficile da descrivere.
Muhammad Ali, il “labbro di Louisville”, nativo del Kentucky, è stato infatti molto più di un atleta. Attivista per i diritti civili, vicino a Malcom X, icona e simbolo degli anni Sessanta, punto di riferimento per un’intera generazione e sostenitore delle marce e delle iniziative del reverendo King, divenne ben presto un mito ben al di là del pugilato. Divenne celebre sul ring e soprattutto fuori da esso, ad esempio quando si rifiutò di partire per il Vietnam, pagando a carissimo prezzo quell’atto di ribellione, di insubordinazione e di dichiarata ostilità ai dogmi e agli idoli di cartapesta dell’ordine costituito.
Pagò per il suo spirito anarchico, per il suo carattere indomito, per la sua fermezza e solidità di princìpi, pagò per la sua notorietà, poiché il suo gesto era chiaro che sarebbe diventato un esempio e avrebbe fatto scuola, rafforzando la posizione di quanti si battevano contro quel maledetto conflitto che avrebbe condotto l’America alla sua prima, vera sconfitta militare e, di fatto, all’inizio del declino del suo prestigio e della sua influenza sul resto del mondo.
Tuttavia, non si può comprendere Muhammad Ali se non si parte dai piccoli gesti che hanno forgiato la sua anima: dalla decisione, rabbiosa e consapevole, di gettare nel fiume Ohio la medaglia d’oro vinta alle Olimpiadi di Roma, in quanto fu scacciato da un locale di Lousville nel quale vigeva ancora la segregazione razziale, al modo sbruffone, spavaldo e spesso guascone col quale intimoriva gli avversari prima di ogni incontro.
. Non si può comprendere Ali se non si analizza a fondo la sua danza sul ring, là dove i pesi massimi, fino a quel momento, avevano duellato praticamente da fermi. Non si può comprendere la leggenda di questo campione senza tempo se non si pensa al fatto che uno dei suoi avversari più pericolosi, Sonny Liston, aveva un pugno di oltre 38 centimetri di perimetro e un gancio sinistro in grado di mandare al tappeto chiunque, eppure con Ali finì K.O. senza quasi riuscire a sfiorarlo. Non si può comprendere Ali se non ci si rende conto che ogni sua azione è stata all’insegna della rottura e dell’eroismo, infrangendo gli schemi, le convinzioni consolidate, i luoghi comuni, i pregiudizi e il demone del conformismo che da sempre caratterizza le società votate all’opulenza. Non si può comprendere Ali se non si considerano tutte le volte che questo “Che” Guevara d’ebano, armato unicamente dei suoi muscoli, ha rischiato di morire, mettendosi in gioco a costo di perdere tutto, lottando con mirabile tenacia, subendo i colpi devastanti che, probabilmente, gli hanno provocato il Parkinson e rimanendo in piedi per onorare la propria dignità e le cause nelle quali credeva.
Non si può comprendere Ali se non lo si colloca nella sua epoca, per quanto si tratti di un personaggio destinato all’eternità. In quell’America in bilico tra ricchezza e miseria, sviluppo e disuguaglianze, grandi conquiste, prima fra tutte lo sbarco sulla luna, e drammatici fatti di sangue (dai Kennedy a Malcom X a Martin Luther King), benessere e arretratezza, emancipazione e violenza; in quell’America dilaniata dalle contraddizioni e in balia di se stessa, scossa da una guerra civile strisciante che raggiunse l’apice nella primavera del ’68, culminando negli scontri alla convention democratica di Chicago che resero bene l’idea del distacco che separava ormai i vertici del Partito Democratico dalla propria base e, in particolare, dai giovani; in questo contesto, Muhammad Ali, convertitosi all’islam per ritrovare se stesso, costituiva un’ancora alla quale aggrapparsi, un porto sicuro nel quale approdare, un rivoluzionario destinato a vincere grazie ad una forza travolgente che, dieci anni dopo il ritiro dei titoli sportivi, lo condusse non solo alla piena riabilitazione ma alla sublimazione del suo stile di combattimento e all’impossibilità di tornare indietro lungo la strada dei diritti e del progresso di un paese che aveva finalmente smesso di aver paura della modernità e del cambiamento.
Questo è stato Muhammad Ali: un precursore, un innovatore, una di quelle personalità destinate a segnare la storia, a vincere nel presente e, soprattutto, nel futuro, a indicare la strada, a tracciare un cammino e, assumendosi la responsabilità di percorrerlo per primo, a far scorgere alla collettività un orizzonte diverso e che nessuno aveva mai avuto l’ardore di scrutare.
Muhammad Ali è riuscito ad arrivare là dove solo i giganti possono osare spingersi, lottando sul ring della vita e mandando al tappeto ogni ingiustizia, prima di arrendersi, non senza opporre una strenua resistenza, ad un destino ineluttabile e, purtroppo per lui, atroce. Era l’epica e la fantasia, la poesia e la bellezza, la leggiadria e il vigore atletico, l’immensità e il tormento, l’astuzia e il dominio, la vivacità e la dignità al momento del commiato. E ora che il sipario si è abbassato, ora che il guerriero riposa, libero da ogni catena, possiamo dire che con la sua morte, all’età di settantaquattro anni, quel secolo breve, intenso, devastante e senza tregua che è stato il Novecento sia davvero terminato e che sia valsa più che mai la pena di viverlo.