Renzo Piano e l’America olivettiana

A due settimane da un voto mai come ora decisivo per le sorti dell’Occidente e, direi, dell’umanità, traggo da “la Repubblica” di sabato scorso una splendida notizia di cui dà conto Federico Rampini: Renzo Piano, uno degli architetti più noti e apprezzati al mondo nonché senatore a vita, ha realizzato il progetto del campus della Columbia University che avrà sede nel cuore di Harlem e si pone come obiettivo quello di portare la cultura e la conoscenza anche in un quartiere un tempo considerato un ghetto della New York povera e di colore, discriminata e in grado di riscattarsi unicamente attraverso le note del jazz e la propria sorprendente creatività artistica.

La cultura, la conoscenza, il sapere, la bellezza e l’apertura mentale al posto dei muri e della diffidenza: cosa c’è di più giusto, condivisibile e progressista nel Ventunesimo secolo? E cos’è tutto questo se non il lascito migliore della presidenza Obama, al punto che uno degli uffici all’interno del campus è stato realizzato proprio per il primo presidente afro-americano della storia degli Stati Uniti? 

Nel progetto di Piano c’è il senso, il valore e l’eredità dell’obamismo, di quella cultura del dialogo e dell’incontro che ha fruttato a Obama un meritato premio Nobel per la Pace e che lo ha indotto a ribadire in più occasioni che la vera forza del proprio Paese risiede più nel prestigio delle università che nella forza delle armi e dell’esercito. 

Non a caso, ha asserito Piano: “Questa America ha bisogno di aprirsi al mondo. E le istituzioni più adatte per farlo sono le università. La mia fabbrica universitaria è un luogo per indagare l’emergere di affinità globali, i valori che ci uniscono, non quello che ci divide”. E ancora: “Nella prima fase della sua storia l’America importava stili dall’Europa. Il campus originario di Columbia è pieno di edifici che imitano l’antica Grecia, l’antica Roma o in finto gotico. Ma oggi l’America un’identità ce l’ha, ed è autentica. È nata con l’industrializzazione. A differenza del campus originario, quello nuovo non ha bisogno di darsi credibilità con delle citazioni di storia altrui, storia europea. Celebra questo Paese. Perciò i miei edifici universitari li ho pensati come una fabbrica bianca. Usano un linguaggio industriale, all’oscurità del neo-gotico ho sostituito la luminosità trasparente. La luce circola, le tende si muovono come gira il sole, l’edificio gioca con la luce, per creare le condizioni conviviali di un lavoro di squadra fra i novecento ricercatori”. 

E cosa sono questi princìpi ribaditi da Piano se non le straordinarie intuizioni di Adriano Olivetti, con la sua visione della fabbrica come luogo di produzione ma anche di cultura, di conoscenza, di educazione alla collaborazione e allo stare insieme, di cardine della società in quanto massima espressione di quello spirito di comunità e collaborazione indispensabile per condurre l’umanità verso mete un tempo impensabili? 

Cos’è quest’identità americana se non la sfida, affascinante e difficilissima, che tutti noi abbiamo davanti nel Ventunesimo secolo, ossia rendere protagonisti e partecipi del progresso e del cammino verso la crescita e lo sviluppo coloro che un tempo ne erano esclusi? 

Cos’è questo spirito inclusivo, comunitario, basato sullo slancio e sul coraggio di spalancare porte e finestre al prossimo se non il grande destino comune di tutti i popoli in una stagione globale e policentrica? 

Ha aggiunto Piano: questo nuovo campus è una “propaggine” lanciata verso il futuro. “Il cambiamento è netto dal vecchio campus costruito centocinquant’anni fa e chiuso da una cinta di mura. Quello nuovo è l’opposto: aperto, accessibile, con il pianterreno dedicato ad attività di confine tra l’accademia e la città. È un pezzo di New York con una storia densa e una fisionomia forte, ai confini di East Harlem, una realtà multietnica e vivace”.

Un progetto costato 2,5 miliardi di dollari, in gran parte frutto di mecenatismo, e volto a coniugare arti, conoscenze scientifiche, studi interdisciplinari sulla mente umana, analisi geo-politiche e geo-economiche e studi sul futuro del pianeta, con la collaborazione di premi Nobel come Stiglitz e di esperti come l’economista Jeffrey Sachs. Un insieme di fabbriche del sapere, proprio come quelle che aveva in mente Olivetti e che animarono la sua utopia di Ivrea, in questo spicchio di America che resiste a un dibattito politico indegno, alla barbarie trumpista, al desiderio di rivalsa di chi non può accedere a questa meraviglia e a trent’anni di scelte sbagliate e di teorie e dogmi liberisti che hanno finito col devastare l’intero Occidente. 

Un’America olivettiana, dunque, che riparte dalla cultura e tenta di riscattarsi, grazie alla lungimiranza del presidente della Columbia, Lee Bollinger e all’umanesimo visionario di un italiano da esportazione che crede fermamente nella possibilità di coniugare passato, presente e futuro, improntando di un’idea positiva un’epoca nella quale si avverte più che mai il bisogno di trarre il meglio da ciascuno di noi. 

Sarebbe bello se in Italia, oltre a dilaniarci in vista del lavacro referendario del prossimo 4 dicembre, decidessimo di mettere a punto un piano di investimenti eccezionale, concordato con l’Europa e scorporato dai rigidi vincoli di Maastricht (peraltro da superare al più presto), al fine di trasformare scuole e università in centri di formazione, di inclusione e di sviluppo armonico della società, coinvolgendo anche le risorse migliori presenti nel nostro panorama industriale e trasformando un sogno utopistico nello sguardo al futuro di un Paese che, finalmente, punta sul proprio talento e sulla propria grandezza, con il preciso scopo di coinvolgere innanzitutto le periferie disagiate delle nostre città e di non lasciare indietro nessuno. 

Sarebbe bello se dove oggi ci sono solo mafia, camorra, ‘ndrangheta, sacche di povertà e di emarginazione sociale sorgessero finalmente università e campus da fare invidia a quelli scandinavi e americani: a mio giudizio, se la sinistra vuole proporre all’Italia un nuovo Contratto sociale, un patto civico per i prossimi vent’anni che aggiorni le intuizioni immortali di Rousseau, non può che partire da qui, dall’idea di portare avanti e rendere cittadini coloro che sono nati indietro e oggi non votano più, in quanto si considerano sudditi, esclusi da ogni prospettiva di progresso e di inclusione e condannati a una condizione di solitudine permanente che, estendendosi, rischia di corrodere le fondamenta della nostra democrazia.

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