“9 Sì, tu m’hai tratto dal grembo materno;
m’hai fatto riposar fiducioso sulle mammelle di mia madre.
10 A te fui affidato fin dalla mia nascita,
tu sei il mio Dio fin dal grembo di mia madre”.(Davide salmo 22)
Lui bambino, che seduto a terra, spalle all’alto muro di cinta di sassi a vista che limitava
la grande proprietà degli Scurati, si sentiva il più solo e disperato del mondo, né nulla più
captava di quanto ardentemente amava: i gerani allineati sulle mensole alle pareti del
disordinato palazzo, né il profumo del ciliegio e del pruno in fiore, né l’odore del rosmarino
e della salvia dell’orto, né il cicalare dei passanti seduti sulla panchina nell’atrium del
palazzo con il portone sempre spalancato di giorno, né lo sferragliare sommesso della
grande bilancia davanti all’armadio della seta che serviva per pesarla, né l’odore dei bachi
della seta nell’ultima stanza che dava sul cortiletto di sassi del lavatoio interno, né il canto
saltellante dell’acqua della roggia e lo sciacquio dei panni delle donne che, ridendo e
spettegolando, sull’inginocchiatoio li sbattevano sulla pietra prima di immergerli, né il
chiocciare delle galline, né il rumore dei telai di suo padre che lo sovrastava. Lui che
aveva saputo dove fosse la mamma perché aveva colto il sotterraneo bisbiglio delle serve:
l’Ercolina, la Vittoria, la Giovanna…
«…no, è uscita…manicomio…adesso è dal fratello del marito…il prevosto che li ha fatti
conoscere…
Lui che era un povero bambino senza la mamma…
“2 Dio mio, io grido di giorno, ma tu non rispondi,
e anche di notte, senza interruzione.
3 Eppure tu sei il Santo,
siedi circondato dalle lodi d’Israele.
4 I nostri padri confidarono in te;
confidarono e tu li liberasti.
5 Gridarono a te, e furon salvati;
confidarono in te, e non furono delusi”.(Davide Salmo 22)
Lui che faceva il liceo classico dai Barnabiti nel collegio di Lodi e si guadagnava la retta
facendo l’istruttore, lui che era uno Scurati e moriva di umiliazione, lui tormentato dal
sesso di notte che era peccato e sognava la sua valle e le strade di pietra grigia e la
piazza col teatro e il Sesia che correva intorno agonizzante a volte, altre ardente di acqua
copiosa
.
“Ma, quanto a me, la mia preghiera sale a te, o Eterno, nel tempo accettevole; o Dio, nella grandezza
della tua misericordia, rispondimi, secondo la verità della tua salvezza”. (Davide salmo 69)
Lui che partiva per Milano con i soldi per iscriversi a legge perché doveva ereditare lo
studio dello zio avvocato scapolo e ricco e si iscriveva a chimica industriale al Politecnico
di Milano e insieme frequentava il setificio di Como perché voleva la fabbrica della seta di
suo padre e sapeva che ce l’avrebbe fatta anche se lui l’aveva bollato “Ti, si mia adattà…
“16 Rispondimi, o Eterno, perché la tua grazia è piena di bontà; secondo la grandezza delle tue
compassioni, volgiti a me”.(Davide salmo 69)
Lui che voleva sposare la compagna di università, laureata, nobile e senza dote e non
una Grober, i potenti del paese che garantivano sicurezza e splendore al suo futuro,
perché negli occhi della Pina leggeva un mare di amore e di ammirazione e di fiducia e lei
gli diceva “tu sei il mio Dio” anche se lui la rimproverava, sentendosi davvero Dio.
Lui che si buttava dall’alto del Sacro Monte per obbligare la sua gente ad accettarla e,
dati i “precedenti”, la sua gente la smetteva di ostacolarlo.
Lui che la sposava vestita con un cappottino nero, perché la sua mamma, vedova, si
era ammalata e lui si struggeva perché avrebbe voluto avesse un abito bianco con lo
strascico e un matrimonio in grande con tutta l’alta nobiltà del paese compresi i titolati
cugini Banfi.
Lui che la portava nella sua valle e lei convinceva il padre del suo Dio a dargli la
fabbrica che trasferivano a Como e la fabbrica cresceva e lui anche insegnava in quel
setificio dove era stato uno studente, da universitario e tutti lo stimavano e lo ammiravano
Lui che aveva dei figli e li amava con passione e la mamma mistificava le sue assenze
dicendo che lui era “il grande cervo” quello che in Bambi compariva nei momenti
importanti per risolvere le cose
Lui che portava il suo unico maschio con sé al setificio, sopportando assenze
ingiustificate e amicizie pericolose e il bettolino dove giocava a carte e dove la mamma lo
andava a prelevare tutti i santi giorni, perché doveva essere l’”erede”.
Lui che capiva, primo di tutti, che la sopravvivenza dell’industria dipendeva dalla
diminuzione del costo del lavoro e aveva lottato con i sindacati subendo ricatti e ritorsioni,
richieste e picchettaggi sino allo sfinimento, per dimezzare il numero degli operai con i
telai automatici e per essi aveva ipotecato lo stabilimento e tutta la terra intorno con una
prospettiva di ammortamento dei costi di impianto nel giro di pochi anni e sviluppo
scontato e senza limiti., quella immensa distesa di terra che aveva comprato dal marchese
Landi la notte in cui era venuto a bussare per dirgli che aveva degli enormi debiti di gioco
e doveva onorarli per non finire in galera o, peggio, nella bara.
Lui che aveva letto, per la prima volta negli occhi di sua moglie la delusione, perché
aveva creduto di vedere nel suo Dio l’ambizione più forte dell’amore, la Pina che diceva di
amare la formica più dell’aquila, pur essendo, lei, un’aquila forte e potente.
Lui che partiva di casa alle 5 per accendere il riscaldamento per gli operai e non tornava
per cena e dimenticava che “loro” lo aspettavano, perché “senza papà non si cena “e
aveva cominciato a litigare con la Pina, litigi violenti di persone intelligenti, di quelli che
levano la pelle e poi…
“Eli, Eli, lamma sabctàni ?
Signore, signore, perchè mi hai abbandonato?”
Lui che, chiamato da Conti, il direttore della banca di Camerlata, basso e pingue più di
sempre, flaccido e untuoso più che mai, si era sentito dire che lo scoperto gli era stato
sospeso, a lui come a molti altri, che doveva rientrare nel debito, perché era un momento
di crisi, perché le cose si voltavano al peggio, per l’industria della seta in particolare con la
concorrenza della Cina, ma per il Paese tutto che stava per essere coinvolto in un disastro
“globalizzato” perché aveva vissuto al di sopra dei suoi mezzi ed era indebitato sino al
collo. Lui che aveva provato ad imporsi con la forza del loro contratto e della legge, con la
dimostrazione (che aveva già dato) dei tempi di ammortamento, con la persuasione della
sua coerenza professionale e della sua riconosciuta onestà, con la preghiera perché
aveva una famiglia cui rendere conto, con l’implorazione di un sentimento di pietà…
“O Dio, vieni a salvarmi,
Signore, vieni presto in mio aiuto.
Siano svergognati e confusi
quanti attentano alla mia vita.
Retrocedano, coperti d’infamia,
quanti godono della mia rovina.
Se ne tornino indietro, pieni di vergogna
quelli che mi dicono: “Ti sta bene!”.
Esultino e gioiscano in te
quelli che ti cercano;
dicano sempre: “Dio è grande!”
quelli che amano la tua salvezza.
Ma io sono povero e bisognoso:
Dio, affréttati verso di me.
Tu sei mio aiuto e mio liberatore:
Signore, non tardare”. (salmo 70, Davide)
Lui che aveva dovuto affrontare la Pina e lei, prefica e Cassandra, piangeva, rinfacciava
e prediceva il disprezzo delle genti e la rovina dei figli e il futuro avanzava feroce e
soffocante, sino a quando tutto si confuse, passato e presente e futuro…
“11 Ho fatto d’un cilicio il mio vestito, ma son diventato il loro ludibrio.
12 Quelli che seggono alla porta discorron di me, e sono oggetto di canzone ai bevitori di cervogia.
13 Tirami fuor del pantano, e ch’io non affondi! Fa’ ch’io sia liberato da quelli che m’odiano, e dalle acque
profonde.
14 Non mi sommerga la corrente delle acque, non m’inghiottisca il gorgo, e non chiuda il pozzo la sua
bocca su di me!
20 Il vituperio m’ha spezzato il cuore e son tutto dolente; ho aspettato chi si condolesse meco, non v’è
stato alcuno; ho aspettato dei consolatori, ma non ne ho trovati.
21 Anzi mi han dato del fiele per cibo, e, nella mia sete, m’han dato a ber dell’aceto”.( salmo 69 Davide)
Lui che aveva gridato “io sono Gesù Cristo che sta salendo al Calvario” e avevano detto
che era impazzito ( nessuno aveva osato sussurrare “come sua madre”) e lui aveva letto
negli occhi della sua donna il disprezzo e la vergogna che lei aveva voluto tenere “in
casa”. Era venuto il professore Masciocchi, illustre psichiatra, fanoia di capelli brizzolati
che divampavano dalla cute, occhi curiosi dietro gli occhiali e aveva fatto la diagnosi e
prospettato la terapia. Ma la Pina non voleva sentire parlare di ansiolitici, antidepressivi,
sedativi che lo avrebbero ridotto un deambulante senza direzione. Preferiva la violenza
alla stupidità e aveva chiesto “l’alternativa”. Masciocchi le aveva parlato dell’elettrochoc
come unica alternativa, che aveva ripreso quota negli ultimi tempi, ma aveva anche detto
della necessità di portarlo in clinica…clinica…manicomio, addolcito, addomesticato, arena
di bestie sconosciute vaganti in cerca di identità. «IO PAGO» aveva detto la Pina, «quello
che vuole, ma da qui non deve uscire»- Era andata in banca dove teneva i suoi soldi e
aveva scoperto che le avevano fatto fare degli investimenti che non le rendevano nulla e
che avrebbe potuto vendere solo nel futuro. Se avesse ritirato, avrebbe ricevuto la metà di
quanto aveva investito: “polizze assicurative arabesque”.
« Io mi sono sempre fidata di voi ciecamente, disse gelida, perché il dott. Milanesi ha
sempre fatto il “mio” interesse, vedo che il giovane dott. Portiglia ha approfittato della mia
fiducia.. »
«Dottoressa, mi meraviglio di lei, lei è una persona preparata, poteva leggere le
“carte”!!!» le disse il dott. Insinna, il giovane direttore, supponente e pesantemente ironico.
«Non si preoccupi, capisco che non mi posso più fidare di voi. Quando scadono? Aprile
2015? Il nostro rapporto è giocoforza duri sino ad allora. Ovviamente prenderò le mie
precauzioni. Ora non ho tempo di discutere.». Lei imparò per il futuro, ma ne vendette
ugualmente una parte, quello che le serviva, perché non aveva nessuna idea delle
entrate/uscite del marito. Da lui riceveva una congrua somma ogni mese sulla quale
riusciva anche a risparmiare…come una formica.
Venne il momento. Relegò le ragazze, che respiravano tragedia, nella sala dei giochi.
La primavera inoltrata bussava alle grandi vetrate con il tremolio delle splendide foglie del
faggio, verdi dove il sole non arrivava, accendendosi in un rosso sempre più fulgido
laddove i raggi del sole le accarezzavano, quasi viola nel trionfo del sole che le
raggiungeva.
Stefano, l’unico maschio tanto amato, non c’era. Aveva rubato l’auto del padre e era
sparito, ancora minorenne, sia pure per poco, senza patente.
“12Grossi tori mi hanno circondato;
potenti tori di Basan m’hanno attorniato;
1 aprono la loro gola contro di me,
come un leone rapace e ruggente.
14 Io sono come acqua che si sparge,
e tutte le mie ossa sono slogate;
il mio cuore è come la cera,
si scioglie in mezzo alle mie viscere.
15 Il mio vigore s’inaridisce come terra cotta,
e la lingua mi si attacca al palato;
tu m’hai posto nella polvere della morte.
16 Poiché cani mi hanno circondato;
una folla di malfattori m’ha attorniato;
m’hanno forato le mani e i piedi.
17 Posso contare tutte le mie ossa.
Essi mi guardano e mi osservano:
1 spartiscono fra loro le mie vesti
e tirano a sorte la mia tunica” (salmo 62 Davide)
Lui, dopo, riaprì gli occhi e sorrise alla moglie, che aveva assistito impavida, sia pure
agonizzando, perché lei non lasciava mai quello che le apparteneva nelle mani di qualcun
altro e Masciocchi disse: «Tutto bene. Ci sono politici che fanno l’elettrochoc e il giorno
dopo sono in Parlamento» Diede le istruzioni e se ne andò con l’assistente e gli infermieri,
dopo aver smontato tutto. La Pina respirò forte e si chiese se lo avrebbe amato ancora e
lui glielo lesse negli occhi. Finse di dormire e lei uscì dalla stanza che non era quella
matrimoniale, perché la Pina non voleva la malattia nei suoi spazi privati, ma era quella
delle ragazze che dormivano in quelle notti nelle stanzette del solaio negli importanti letti di
noce con gli angioletti, gioielli di antica fattura che vantavano l’ospitalità di una miriade di
generazioni.
“6 Ma io sono un verme e non un uomo,
l’infamia degli uomini, e il disprezzato dal popolo.
7 Chiunque mi vede si fa beffe di me;
allunga il labbro, scuote il capo”,(salmo 22)
“3 Sono stanco di gridare, la mia gola è riarsa; gli occhi mi vengon meno, mentre aspetto il mio Dio.
8 Io son divenuto estraneo ai miei fratelli e un forestiero ai figlioli di mia madre” (salmo 69)
Lui si alzò, percorse il corridoio sino alla sala grande, la attraversò e andò sul terrazzo
che sporgeva sulla ferrovia. Guardò la città che aveva scelto, corse attraverso le strade
appena accennate, rivoli di cemento in mezzo alle case e i campanili, S. Rocco, S.
Abbondio, la cupola del Duomo,,, e il lago, sorridente, piccola chiazza azzurra vista da
lontano e la cerchia delle montagne rassicuranti, ma non soffocanti, che lo cingevano. I
momenti della sua vita gli passarono davanti, tutti in fila. Lo prese allora un’ira sorda verso
tutto e tutti e un desiderio lancinante di vendetta
Salmi 69:22
“Sia la mensa, che sta loro dinanzi, un laccio per essi; e, quando si credon sicuri, sia per loro un tranello!”
Salmi 69:23
“Gli occhi loro si oscurino, sì che non veggano più, e fa’ loro del continuo vacillare i lombi”.
Salmi 69:24
“Spandi l’ira tua su loro, e l’ardore del tuo corruccio li colga”.
Salmi 69:25
“La loro dimora sia desolata, nessuno abiti nelle loro tende”.
Salmi 69:26
“Poiché perseguitano colui che tu hai percosso, e si raccontano i dolori di quelli che tu hai feriti”.
Salmi 69:27
“Aggiungi iniquità alla loro iniquità, e non abbian parte alcuna nella tua giustizia”.
Salmi 69:28
Sian cancellati dal libro della vita, e non siano iscritti con i giusti.
Lui calcolò con freddezza la traiettoria della sua caduta. 30 e lode in fisica e
matematica, unico di chimica industriale e quando arrivò il treno, spiccò il volo pregando
«Padre, nelle Tue mani rimetto il mio spirito. E detto questo spirò». (Lc.23-46)
La versione ufficiale fu che il dott. Tommaso Scurati, da tutti stimato e da
molti amato, dopo un intervento era andato sul terrazzo per respirare un poco di aria pura,
gli era venuto un malessere ed era precipitato. Nessuno, e tanto meno il Parroco,
conoscendo la sua fede e la sua rettitudine mise in dubbio i fatti, non pensando che per
cadere, proprio sulle rotaie, avrebbe dovuto più o meno eseguire un tuffo come quello che
dal ponte di Crevola, da bambino, faceva nel Sesia, calcolando la giusta traiettoria in
trasversale per cadere dove l’acqua era più alta.
Il funerale fu un trionfo, come tutti i funerali dove “il dolore” è vero. Gli Scurati abitavano
in una strada deliziosa che in dolce salita, parallela alla Napoleona, la principale arteria di
entrata in Como, partiva dalla chiesa di S. Rocco e sfociava all’altezza del vecchio
ospedale: ville e villette, curate e trasandate, giardini e parchi all’ombra della montagna su
cui vegliava, diroccata ma ferma, un’unica torre, rimasuglio di quello che era stato un
castello del Barbarossa; vecchie dimore all’interno della Ca’ merlata e la splendida
basilica di San Carpoforo che lentamente ma inesorabilmente languiva nella penombra
della dimenticanza, risorta invece nelle strutture adiacenti in una fiorente scuola privata di
ormai collaudata fama
Gli Scurati stavano esattamente alla metà di quella strada e i partecipanti al funerale
partivano dalla casa e arrivavano sino alla chiesa, 500m. di un dolore sincero, di lacrime
genuine. C’erano tutte le classi del setificio, c’erano gli studenti delle scuole ormai
concluse, ma partecipi del dolore delle ex alunne, figlie del defunto: il liceo magistrale, il
liceo classico e l’istituto delle Canossiane. C’erano coloro che condividevano le idee
politiche di Scurati, i membri dell’Ufficio diocesano per la pastorale della famiglia di cui era
il direttore, con la moglie (polemica ma ubbidiente), l’intero consiglio pastorale Diocesano,
amici, parenti, conoscenti, gli operai della fabbrica, tutti in gramaglie perché l’uomo era
conosciuto, aveva anche rischiato di diventare sindaco di Como, se il Martinelli, un lupo
affamato non lo avesse scavalcato proprio informando a fior di labbra della fragilità della
“famiglia di origine”di cui, chissà come, era venuto a conoscenza. Lui non aveva portato
alcun rancore, perché non era nella sua indole, ma anche perché considerava
l’appartenenza politica un dovere, al contrario di quanto diceva la Pina: la fabbrica e la
famiglia gli bastavano.
Quando la famiglia uscì, tutti si ritrassero per fare spazio. I ragazzi ululavano il loro
dolore con lacrime amare… loro sapevano… incuranti degli insegnamenti a lungo impartiti:
“Non ci facciamo subito riconoscere, gli Scurati ignorano il controllo…” e infatti i quattro
ragazzi barcollavano dietro alla bara ubriachi di patimento, fregandosene della gente e di
quello che pensava, riuscendo a malapena a seguire il feretro e sostenendosi l’un l’altro
come fuscelli scossi da un vento impietoso. Non vedevano nessuno, non sentivano nulla,
seguivano il feretro come i cani seguono l’adorato padrone, augurandosi che tutto finisse
nel minor tempo possibile e potessero tornare a macerarsi nel silenzio insolito della loro
casa.
Conti e alcuni funzionari della Banca con un tipo che non conoscevano, il prof.
Masciocchi, l’assistente e gli infermieri aspettavano in chiesa e solo la moglie del defunto li
vide e fece un cenno. Il feretro fu posto sulla nuda terra come spettava ai nobili e tutta la
cerimonia si svolse in un silenzio austero dove l’unico suono era la voce sommessa del
prete e i singhiozzi che non cessarono mai. Composta, ma fiera al loro fianco, ormai
conscia dell’inutilità di qualsiasi ammonimento, la moglie del dottor Scurati respirava
appena, cercando di placare il tumulto del suo cuore dove rimpianto e tenerezza,
disprezzo e rivolta, paura e curiosità, desiderio e ripugnanza stavano combattendo una
battaglia che temeva l’avrebbero distrutta, resa incapace di riflettere con raziocinio
sull’accaduto e arginare il baratro che si stava aprendo intorno a loro.
Niente musica durante la cerimonia, solo alla fine l’organo singhiozzò nelle note del
Requiem di Mozart. I 5 Scurati non uscirono, non vollero mischiare il loro dolore con le
parole inutili delle condoglianze. Si sedettero nella panca a loro destinata e aspettarono
che la chiesa sfollasse, che tutti quelli che si erano fermati davanti al portale di ingresso
capissero che non sarebbero usciti e quando lo scalpiccio dei passi, lo sbattere delle porte
si placò, la mamma li guidò alla sagrestia dove ancora Don Luigi stava togliendosi i
paramenti, lo salutarono fecero portare la bara sul furgone e si sedettero al suo fianco e
partirono per la verde valle che aspettava il figlio nella tomba di famiglia. Vollero ritornare
quella stessa notte con lo stesso furgone della compagnia funebre e si fecero lasciare a
notte fonda davanti alla loro casa.
Lei si ritirò negli spazi di rappresentanza e lì dormì sul sofà orientale e mangiò quello
che l’Anna, la fidata Anna che l’aiutava da sempre, preparava per tutti
La Gio si rifugiò nella stanza che divideva con le mezzanelle.
Ilaria e Carlotta parcheggiarono esauste nella sala dei giochi e Stefano si chiuse nella
sua cameretta.
La Gio frequentava il secondo anno di architettura, sezione design, con l’ambizione
futura di dirigere un settore creativo dell’azienda familiare. Era estrosa ed era quella che
meglio conosceva la fabbrica perché la legge ”Noi vi diamo il diploma, la laurea ve la
dovete guadagnare anche se siete degli Scurati», l’aveva spinta a lavorare con il padre
per pagarsi le rate dell’Università.
Ilaria frequentava psicologia alla Cattolica di Milano e insegnava ed era l’unico stipendio
sicuro extra familiare su cui si poteva contare.
Carlotta, preso il diploma magistrale, aveva annunciato alla famiglia che voleva fare la
cantante lirica e nello sgomento materno, il padre l’aveva appoggiata. Pertanto si era
iscritta al Conservatorio e ogni giorno raggiungeva Milano per gorgheggiare scale,
scalette e vocalizzi vari, arie, duetti, concertati e cabalette. Si autofinanziava con qualche
concerto e con l’appartenenza al coro dei cantori lariani.
Stefano era stato bocciato, nonostante fosse il figlio di un docente e ripeteva, bigiando
spesso, l’ultimo anno del setificio.
Erano belli i ragazzi Scurati: minuta e flessuosa la Gio con grandi occhi verdi e
cortissimi ricci castani che disegnavano una testa sopraffina e creativa di rara potenza
provocatoria. Nell’immaginario familiare era rimasto, più volte citato, l’episodio in cui
bambina mentre guidava il gruppo dei fratellini, quando ancora stavano in via Scalabrini e
facevano le scuole, loro alle Orsoline e Stefano al collegio Gallio e prendevano il treno
della Nord per arrivare in centro Como, la frase con cui aveva freddato un’incauta che
l’aveva affrontata sul treno mentre passavano da una carrozza all’altra, lasciando le porte
spalancate, alla ricerca dei posti giusti « Ehi, ragazzina, non esistono le porte a casa tua?»
La Gio senza girarsi « No, signora, tutte tende»
Alta e imponente l’Ilaria, ovale perfetto, caldi occhi nocciola, forte naso aquilino e una
morbida bocca e lunghi capelli castani, una figura sinuosa dove le curve ardite
provocavano spesso salaci commenti. Appariscente più che bella, forse, ma classe da
vendere
Non alta, grandi occhi scuri un profilo perfettamente equilibrato in un viso bellissimo e la
figura piena, dalla vita sottilissima e il seno generoso, la Carlotta.
Stefano sul camice del laboratorio una volta aveva trovato scritto “Rodolfo
Valentino”…alto e snello, con i riccioli ribelli come tutto in lui e una leggerezza pericolosa
nello scegliersi le amicizie.
Dopo una settimana di silenzi la Pina uscì dalla sala bella e riunì la famiglia
«Siamo sull’orlo del fallimento, disse senza tanti preamboli, terreni e fabbrica sono
ipotecati, abbiamo un debito da risalire di un milione di euro, la Banca ci ha chiuso il
credito, io ho dei soldi in banca che non posso toccare perché altrimenti dimezzo il loro
valore. Possiamo contare solo su 1500 € che ho trovato nella cassaforte e i soldi che
Masciocchi non ha voluto. Dobbiamo vedere con Ronchetti i crediti e i debiti spiccioli della
fabbrica, clienti e fornitori e, siccome non mi fido della sua intelligenza, bisogna che io
vada in fabbrica e prenda in mano la situazione e ognuno di voi deve dare il suo contributo
alla conduzione della famiglia.
Tu Gio, che la conosci e hai la patente verrai con me in fabbrica e insieme vedremo
come affrontare banca, sindacati, operaie e maestranze
Tu Ilaria farai la tua solita vita, però sappi che il tuo stipendio non verrà più messo su un
tuo conto, ma verrà usato per tirare avanti il quotidiano della famiglia, bollette e
vettovaglie, pertanto attenti alla luce, al telefono, al gas…insomma via tutti gli sprechi. Tu
sei l’addetta alla spesa. Il tuo territorio sarà il mercato e dovrai trovare il tempo per
accorgerti di quanto manca, di quello che occorre giorno dopo giorno per tirare avanti e far
quadrare i conti.
Tu Carlotta che ami la casa, provvederai alle pulizie con l’aiuto di Anna e a tenere
l’ordine generale a cui…TUTTI COLLABORARETE, aggiunse minacciosa
E tu, Stefano dovrai metterti sotto a studiare perché se non ce la fai nemmeno
quest’anno, comunque dovrai lavorare». Nessun accenno all’ultima bravata.
Ognuno accettò il proprio fardello senza discutere e si organizzò in modo da non
trascurare anche i propri impegni e ricominciò a riaprire i rapporti con l’esterno. La mamma
e la Gio ottennero dal Conti della Banca un poco di respiro.
«…anche se… devo consultarmi con i sommi vertici» concluse Conti salutandole,
guardandole fissamente con i suoi occhi chiari e spenti, dietro gli occhiali da miope.
« Quali vertici?», intervenne la Gio, «Questo vorrebbe dire che di punto in bianco,
come avete fatto con mio padre, potremmo trovarci di nuovo nelle spire della vostra
famelica ganascia?»
« Non dipende, in fondo, né da me, né da loro…è una questione generalizzata ormai…»
tagliò corto il direttore impreparato a tanta audacia.
I sindacati credettero di poter conquistare, finalmente, uno spazio all’interno della ditta
Scurati.
Quando il Pezzi ipotizzò l’assunzione della moglie quale amministrativo alludendo ad
una morbidezza dei loro interventi, gli fu risposto con cortesia che non avrebbero proprio
potuto parlare di “assunzioni” ma caso mai di ulteriori tagli del personale. Quando disse
«Sa, che vuole, anche noi siamo uomini e abbiamo famiglia…» la dott. Scurati rispose
sicura, con l’ingenuità della neofita
«Ma voi avete la “fede”» e gli tappò la bocca.
Fu il dott. Molteni che fece un errore imperdonabile. Quando alla Gio che, più carina
che mai, difendeva il diritto alla sopravvivenza della fabbrica che sarebbe stata agevolata
da un taglio del personale, ogni tessitrice 4 telai invece di due, ogni tessitore 20 automatici
invece di dieci, flautò
« Se ti arrabbi sei ancora pià bella» allungando una mano in direzione del seno « io so
essere molto disponibile con chi è disponibile con me…» si ebbe un feroce e sibilante «Io
la denuncio agli organi locali, a quelli regionali, a quelli centrali dell’intero paese, la metto
sui giornali e in televisione con nome e cognome…Voi avete più volte chiesto denaro a mio
padre in cambio di mansuetudine, soldi che mio padre non vi ha mai dato perché nel suo
rigore morale non ha mai avuto nulla da nascondere, voi avete ipotizzato un’ assunzione
in cambio di clemenza e ora lei… lei si permette di fare delle avances che paghino la
vostra “ misericordia”? Faccio nascere intorno alla cosiddetta “probità”, alla cosiddetta
“integrità” dei sindacati un tale scandalo che ne parlerà tutta Italia. Mi crederanno glielo
assicuro! Andatevene, immediatamente e non vi fate rivedere se non vi chiamiamo noi…»
Il dott. Molteni capì che non scherzava e …benignamente concesse un “equo tempore”
per cercare di salvare la ditta Scurati. La Gio annunciò alla madre che voleva cambiare
facoltà. Architettura esigeva la frequenza, avrebbe fatto legge che le avrebbe permesso di
studiare aiutandola. Avrebbe poi fatto un corso online per design sulla seta. Ma,
ovviamente, non era solo quello…
Ilaria faceva quanto doveva ma stava malissimo, somatizzando il dolore. Si alzava
sofferente. Tutto doleva: la testa, la pancia, la schiena le ginocchia. Si trascinava per i 5
km a piedi ogni giorno per raggiungere Bosisio Parini e quando quello stronzo del marito
della collega, schifoso adultero di uno splendore di moglie incinta, le offriva un passaggio
di ritorno dall’averla accompagnata, era quasi tentata di accettare, se non fosse stato per
la ripugnanaza viscerale che le suscitava quell’uomo con il sorriso lascivo della sua bella
faccia di seduttore paesano.
Studiava in corriera quelle tre ore che impiegava per arrivare e tornare, e spesso si
attardava a scuola perché lo studio in corriera non rendeva più dopo i 5 km serali a piedi.
Dedicava l’intero giorno libero alle mansioni che la mamma le aveva affidato. Una sera che
ciondolava nella corriera semivuota perché era tardi e c’erano solo pochi uomini abbruttiti
dal lavoro, le capitò in mano un giornale abbandonato e la folgorò un titolo
Crisi, Ferro parla dei suicidi: “In Grecia ce ne
sono stati 1725′′.
Lei non aveva mai voluto entrare in facebook nonostante i ripetuti inviti perché non le piacevano i grandi
contenitori e gli amici a cui non poteva guardare negli occhi, ma quella notte, appena tutti si
addormentarono, prese il portatile, creò un suo spazio che intitolò
DCD
DOVETE CONOSCERE IL DOLORE
e sotto, enorme, in rosso scrisse:
“basta
dobbiamo reagire, non
possiamo più stare a
guardare
obiettivi
ministeri, banche, equitalia, palazzi di giustizia, sindacati
politici, giudici, sindacalisti, direttori di banca, docenti
universitari
questi devono sapere
cos’ è il
DOLORE
.
METTETEVI IN CONTATTO CON ME
”
Chiuse il computer e si mise a dormire. Controllò il mattino dopo in corriera e finì di
leggere i messaggi mentre entrava in classe. C’erano 1217 risposte. Improvvisamente
sparì il mal di testa, il mal di schiena, il mal di pancia, il mal di gambe e pensò che ne avrebbe scelto uno per ogni capoluogo di regione. Avrebbe fatto i dovuti
accertamenti e poi…e poi si sarebbe visto…