Era la punta di diamante dei giornalisti “democratici”, un secolo fa. Ora, ogni sua virgola è gettata con violenza contro il suo ex editore, Carlo De Benedetti. E noi lettori non sappiamo perché
Quando cominciò a pubblicare i suoi libri “revisionisti” era ancora condirettore de “L’Espresso”. Scriveva da decenni per il gruppo di Carlo De Benedetti, lui, il piemontese di ferro, cioè Giampaolo Pansa, la penna più acuminata del panorama giornalistico italiano degli anni Ottanta. Memorabile quella che, ironicamente, Leonardo Sciascia aveva chiamato la “zoologia politica” delle Balene bianche creata da Pansa e contenuta in articolesse che solitamente occupavano una pagina e mezza del formato tabloid del quotidiano diretto da Eugenio Scalfari e che rappresentarono per molto tempo il modo alternativo al tradizionale “pastone” politico. Pansa scrutava i volti, i corpi contundenti, le affannate relazioni dei boss democristiani durante i congressi con un binocolo e prendeva appunti, per poi travasarli in una prosa scoppiettante e piana, che qualsiasi lettore, anche il meno colto, era in grado di comprendere.
Ma era successo che l’autore di “ Todo modo” aveva pubblicato un articolo sul “Corriere della sera” il cui titolo “I professionisti dell’antimafia” aveva fatto letteralmente imbestialire Pansa, che aveva risposto al celebre scrittore accusandolo di codardia. Sciascia se l’era presa, anche se le sue eccelse qualità di polemista misero il giornalista di “Repubblica” all’angolo. Pansa e l’antimafia, Pansa e il Pci, Pansa e l’alternativa di sinistra. Insomma, per molti decenni il piemontese di ferro aveva significato il riscatto del popolo della sinistra, la convinzione che il giornalismo “democratico” fosse tutt’altro rispetto a quello paludato e borghese del “Corriere della sera” e de “Il Giornale” dell’era montanelliana.
Poi, qualcosa si ruppe, anche se molti suoi lettori (compreso chi scrive) continuavano a leggerlo con attenzione ed affetto. Passò a “L’Espresso” e non scrisse più un rigo sul quotidiano di Eugenio Scalfari. Ma anche al settimanale di via Po sembrò progressivamente deperire, essendo praticamente relegato ad una sua rubrica diventata in breve tempo famosa, “Il Bestiario”, in cui però appariva sempre più rancoroso e soprattutto con la sinistra (celebre una sua polemica astiosa con l’allora sindaco romano Francesco Rutelli che lo definì “l’anziano giornalista”, incrementando la sua rabbia). Sembrava come se direzione e editore lo sopportassero, non potendolo cacciare perché non si smonta dall’oggi al domani un monumento. Anche i suoi lettori (compreso chi scrive) cominciarono a identificarsi sempre di meno con il contenuto dei suoi pensieri, che oramai finivano per coincidere con quelli della destra, di personaggi come Giorgio Pisanò, Edgardo Sogno, i teorici del “colpo di Stato” del 25 luglio, del “tradimento della Patria”.
Era cominciata la stagione dei suoi libri sulla Resistenza, “Il sangue dei vinti”, in cui l’ex giornalista progressista cerca di dimostrare come la storia della Resistenza raccontata fino ad oggi sia parziale, tendenziosa, sostanzialmente falsa. Praticamente, la versione da sempre e disperatamente raccontata dai nostalgici del Ventennio, dai fascisti e che nemmeno più Gianfranco Fini osava propagandare. Il suo racconto si fa vivido, sottolinea le stragi compiute dai partigiani nell’immediato dopoguerra, isola i fatti scollegandoli dalle loro cause, per fare del movimento partigiano una congrega di biechi assassini e sostanzialmente parificandoli ai fucilatori della Repubblica Sociale di Salò, a quegli scherani che organizzavano i massacri degli ebrei italiani insieme all’alleato nazista.
La sua coabitazione con i colleghi de “L’Espresso” diventa impossibile, anche perché Giorgio Bocca, il più strenuo difensore dei valori della Resistenza ed altro autorevole commentatore del settimanale, non lo vuole più, considerandolo un rinnegato (“O io o lui, decidete!”, avrebbe urlato un giorno al suo direttore). È così che, la più acuminata penna degli anni Ottanta, passa il Tevere e finisce per trascorrere una dorata esistenza nei giornali berlusconiani, in “Libero”, trasportandovi la sua celebre rubrica “Il Bestiario”. La soluzione alcalina in cui intride la penna è la stessa, ma con opposti avversari. Ora è l’Ingegnere il suo nemico principale e il partito di Berlusconi l’omologo dell’allora Partito comunista. Scrive in difesa di Angelino Alfano sull’ultimo numero di “Libero”: “Quando arrivò a quella poltrona irta di chiodi roventi, l’ingegner Carlo De Benedetti lo liquidò in modo sprezzante: ‘Hanno scelto un manichino’. Alfano mi piace. E lo seguo con simpatia nel suo difficile lavoro. Continui a dimostrare che, ancora una volta, il mitico Ingegnere ha sbroccato”.
Una giravolta a 360 gradi non inconsueta nei giornalisti italiani. Ma per noi, semplici lettori, resta il mistero: che cosa è successo fra lui e Eugenio Scalfari-Carlo De Benedetti?