Arte. A Bomarzo una scultura per i 30 anni dell’Avis. Intervista allo scultore Vezio

 

L’interpretazione del concetto di musicalità dell’opera

ROMA – Un riconoscimento a tutte quelle persone che nel silenzio hanno donato il loro sangue. Questo in sintesi l’opera di Vezio Paoletti, inaugurata il 2 agosto nella piazza Roma di Bomarzo, nel viterbese. Una pietra bianca di Verona, imponente che lo scultore Vezio ha progettato e lavorato per dare quel senso di  vita e speranza che rappresenta una delle associazioni più antiche e nobili  della penisola, l’Avis. Abbiamo incontrato l’artista per conoscere in maniera più approfondita la sua ultima opera e quelle già realizzate.

Perché l’uso di una pietra bianca di Verona?

Perché come nella vita il progetto e la teoria liberano sulla carta solo parte della realtà a cui fanno riferimento, è nel work in progress  che si allineano fisicamente le scelte definitive. Questa pietra porta con se naturalmente, da cava, la lucentezza calda dell’avorio che si esprime, una volta levigata, come invito a una carezza.  In questo caso al materiale è affidata, paradosso, l’interpretazione del concetto di musicalità dell’opera. E quindi contrappunto con la spinta delle geometrie.

Lei ha all’attivo molte altre opere in bronzo, tra l’altro esposte in Umbria, nella Tuscia e in special modo nel viterbese, terra antica dei Papi. Crede che l’arte si sia allontanata  troppo da un binario che un tempo era considerato classico?

Si dice che l’arte cresce sull’arte. L’arte come la verità non si diffonde storicamente  ma in modo dialettico e la crescita ha luogo escludendo la conservazione di forme esanimi . Lo intuisce un giovanissimo Caravaggio che sente arrivato il momento di lasciare cadere i suoi classici, sostituendoli con una nuova personale verità: la scoperta della resa fedele di un “pezzo” di realtà. Michelangelo Merisi non inventa la ”realtà-acquario” per  prendere distanze dall’antico ma per accorciarle col nuovo che in quel momento rappresenta il percorso più vero fra coscienza e cambiamento.

Una sua formella in bronzo, il Lazzaro, ispirata da “mistero buffo” di Dario Fo, è stata acquisita nella collezione di arte del  XX secolo, del Museo Vito Mele a Santa Maria di Leuca.  Lei già dagli  anni ’80 affida la realizzazione delle sue opere a fonderie storiche  come la Cubro o la Maf a Milano, alle quali si rivolgevano i grandi maestri dell’arte moderna. Possiamo affermare che alcuni  luoghi che prima erano una fucina di creatività rischiano, come altre realtà artigianali, di scomparire portando via con sé la cultura che ha caratterizzato un’epoca importante per l’arte italiana?

Questi  luoghi magici sono un patrimonio della cultura italiana così come le opere che hanno visto nascere da i loro crogiuoli. Ogni operaio o artigiano all’interno di una fonderia artistica oggi esprime quotidianamente il portato secolare di un mestiere di cui i grandi della scultura di tutti i tempi si sono avvalsi per distillare poesia dai propri lavori. I registri espressivi dell’arte oggi si affidano a materiali e strumenti quelli meno canonici. “ Sti moriammazzati prediligono l’olio” direbbe simpaticamente Carlo Emilio Gadda, che però poi seppe apprezzare anche la buona cucina romana. 

Lei  ha segnato nel bronzo ritratti che vanno da Pasolini a Dario Fo al volto raffigurante Papa Giovanni Paolo II, tuttora custodito nel vicariato generale del patriarcato di Venezia. Cosa pensa della trasformazione della scultura nell’arte ai nostri tempi?

Nel  ’72  proprio Pasolini a chi gli chiedeva il perché del passaggio dalla scrittura letteraria al cinema, rispondeva come la letteratura fosse  ormai insufficiente a contrastare forme di  violenza esercitata dal potere e aggiungeva di fare il cinema per vivere secondo la sua filosofia, cioè la voglia di vivere fisicamente sempre a livello della realtà. Quindi inevitabili, per fortuna, il trapasso dei modi artistici e le trasformazioni dei linguaggi usati. L’impegno è conoscere quali  e cosa sono le realtà che producono questi cambiamenti, così da stabilire un confronto laico e non subalterno. Di nuovo, anche in questo Caravaggio, come del resto Pasolini, fu vero ambasciatore del soggetto feriale. Quando, vale la pena ricordarlo, si dipingeva solo per soggetti imposti e su commissione ecclesiale o della nobiltà.

 

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