“Serre-moi fort”, una contemplazione emotiva del regista francese Mathieu Amalric

La notizia è questa: “Serre-moi fort”, il film di Mathieu Amalric presentato allo scorso Festival di Cannes, ha trovato un distributore in Italia: sarà Movies Inspired di Torino.

È successo dopo la prima del Festival di Film di Villa Medici, dove la pellicola, grazie alla collaborazione con la Fondazione Cinema per Roma, è stata proiettata in anteprima sul maxischermo del piazzale la sera dell’inaugurazione, alla presenza dello stesso regista. Il che ci rincuora e ci fa sperare in un ritorno dello spettatore alla visione di  un cinema d’autore di qualità, che fa riflettere, emozionare e interpretare soggettivamente un’opera dal pluristrato semantico e linguistico come questo lavoro, il sesto per Amalric, dimostra di essere.

Impossibile parlare di una trama in questo caso quando la costruzione è tutta nella testa della protagonista Clarisse, interpretata da una convincente ed espressiva (nella sua richiesta apatia da scock) Vicky Krieps, attrice lussemburghese che ci fa percorrere rocambolescamente ma con poesia centellinata le fasi di un dolore, cercando di reprimerlo nella propria mente con la sovrapposizione temporale di continui avanti e indietro nel tempo, con l’uso indiscriminato di passato, futuro e condizionale, dal momento che presente è il suo tempo interiore, da cui lei stessa si distacca. Il film scorre lungo il binario di una prospettiva ragionata, fantasiosa, istintiva, nel quale siamo certi dei personaggi ma non riusciamo più ad inquadrarne il proprio ruolo, proprio in virtù di una durata sincronica e diacronica di fatti, fantasie e supposizioni.

Clarisse decide di lasciare casa e famiglia o è viceversa? Qual è il suo lavoro e come si antepone o sovrappone al profondo affetto per i figli e incommensurabile amore per il marito? Chi caccia via chi e se dalla realtà dei fatti o dai pensieri? Il gigantesco lavoro di montaggio realizzato su una storia che si scopre solo alla fine ma che, anche al termine della visione, è da riprendere per riconsiderare nell’evoluzione ingarbugliata della psiche, è opera magistrale di un lavoro a due, realizzato faticosamente in tempi di Covid dal regista insieme a François Gédigier. Un capolavoro di stile che cammina in perfetto equilibrio funambolico con una colonna sonora permeata dalle incisive sfumature create dalle dita di una bambina, la figlia della protagonista, che solo nell’immaginazione diventerà un apprendista concertista al Conservatorio parigino, molte scelte musicali delle quali sono affidate all’interpretazione di Marta Argerich. Beethoven, Debussy, Rameau, Schoenberg, Mozart, Chopin, Ligeti, Ravel alternati a canti tradizionali per l’infanzia e pop d’autore (emerge su tutti la “Cherry” di  J.J.Cale) si cuciono addosso alle scene serrate della ricerca della verità. Compiuta dalla protagonista dentro e fuori se stessa. Un dialogo a volte contrappuntistico che non dà spazio al fiato per comprendere ma che ossigena il cervello permeandolo di sonorità che colpiscono il subconscio e che offre visioni ispirate certamente ad elementi di arte figurativa, come dimostra una scena – tra le tante clou del film – in cui le dita della donna sfiorano i personaggi di un ritratto familiare del pittore Robert Bechtle. Il punto di svolta della pellicola – il ritrovamento dei tre cadaveri che ci fa capovolgere il senso della prospettiva narrativa a cui si era cercato di stare dietro pur guidando uno sbalestrante veicolo di autoscontri percettivi – è forse l’unico momento in cui possiamo notare l’esterna macchina da presa di una troupe che filma e lo fa tutto d’un fiato, grazie all’eccezionale bravura della protagonista che sfoga improvvisamente agli occhi altrui la sua più recondita disperazione davanti ai corpi degli unici affetti della sua esistenza. Perché, per il resto, la dimensione è talmente intimista che Amalric sembra essersi calato – mediante un’operazione di transfert cognitivo, nella psiche della donna, pilotandone ogni riproduzione, reale o immaginifica che sia. E questo grazie alla sua ipersensibilità autoriale che riesce a trasmettere in forma assolutamente originale le chiavi di possibili elaborazioni di un lutto, fino a quando – nonostante alcuni oggetti alla mano che ricordano il passato dandogli comunque un senso nei momenti più belli – si è pronti per cambiare vita.

Il film è prodotto da Les Films du Poisson, Gaumont, Lupa Film e Arte France Cinéma2. Nel ruolo del marito di Clarisse c’è il belga Arieh Worthalter. I figli sono interpretati da Juliette Benveniste  e Anne-Sophie Bowen-Chatet (Lucie piccola e grande), Aurèle Grzesik e Sacha Ardilly (Paul adolescente e cresciuto). La storia è tratta da Je reviens de loin de Claudine Galea, per il momento ancora mai rappresentata sulla scena. Direttore della fotografia è Christophe Beaucarne; costumi di Caroline Spieth; scene firmate da Laurent Baude. In Francia e Belgio il film è uscito l’8 settembre. Dopo Villa Medici aspettiamo presto il suo arrivo nelle sale italiane. Perché, senza un ombra di neanche lievissimo dubbio, merita!

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