Agli appartamenti di sua altezza reale si accedeva attraverso una olimpica scala di marmo, protetta da un corpo di guardia numeroso e sfaccendato che ingannava il tempo spettegolando, giocando d’azzardo, tenendo a distanza i venditori che, come farebbero oggi firme rinomate, rifilavano a prezzo esorbitante normale mercanzia . Visitatori e corrieri, sbandierando affari imperdibili, riuscivano a intrufolarsi fino all’anticamera della sala pranzo dove uno stuolo di domestici, ciascuno con la divisa che stabiliva la gerarchia delle mansioni, attendevano in attesa di ordini.
Mops, l’amatissimo cane di Maria Antonietta, un carlino fulvo e con la coda ricurva che era stata costretta ad abbandonare durante il viaggio verso la Francia e che con grandi proteste si era fatta rispedire a Versailles, correva sul parquet con rinnovato vigore assieme a un suo compagno, libero e viziatissimo, facendo cacca e pipì dove gli pareva.
La fece anche quel pomeriggio, mentre l’arciduchessa prendeva lezione di canto.
Quando Madame de Noailles, la dama d’onore, entrando se ne accorse, impietrì: un odore nauseabondo sviliva i gorgheggi della pupilla.
Altezza! – sussurrò cercando di attirare l’attenzione.
Gli acuti di Maria Antonietta coprirono la sua voce.
Ooooooh! Aaaaaah!
– Fa diesis, altezza reale! Fa diesis! – disse il maestro al clavicembalo.
– Altezza! Per carità di Dio… – esclamò disperata Madame de Noailles.
La musica tacque.
Altezza reale, Mops ha mollato qualcosa di… – e turandosi il naso la guardò scandalizzata.
Ebbene? – rispose l’altra imperturbabile – Fate provvedere…
Sarebbe opportuno che i cani stessero fuori…
Ma la Delfina, alzando un ciglio, la gelò con lo sguardo.
Nessuno dei servitori aveva in effetti l’incarico di badare agli animali che erano, per questo, estremamente sudici. Mops passava il tempo a rosicchiare gli arazzi pregiati che coprivano fino a terra le pareti, grattava il mobilio, strappava la tappezzeria delle poltrone, si rotolava sul pavimento con il figlio del primo valletto e della prima cameriera di Maria Antonietta, due bambini di quattro e cinque anni che si divertivano a rincorrerlo e che, proprio in quel momento, si fecero sulla porta.
Venite qui! – li chiamò la Delfina appena li vide.
Timidi i piccoli avanzarono.
Andate a pulire la cacca del cane, prendetela e portatela via.
I bambini si guardarono incerti.
– Su… andate! – ribadì imperiosa sua altezza.
I monelli scattarono chinandosi sotto il tavolo, strisciarono sotto il clavicembalo, sotto le poltrone, ballonzolando raggiunsero una consolle a mezza luna e cercarono di aprire il suo cassetto decorato di foglioline d’oro.
Ma dove state cercando, stupidi! – strillò Maria Antonietta.
Finalmente, in un angolo contro il muro, trovarono gli escrementi, li avvolsero in uno straccio lurido cavato da una tasca e vociando corsero via, fuggendo a piedi scalzi insieme ai cani.
Facendosi vento con le mani Madame de Noailles, rossa in viso, sembrava stare male: Maria Antonietta osservandola provò piacere, una sorta di inconsapevole rivalsa per la sottile violenza che le infliggeva la gran maestra della casa con la pretesa di stenderle un tappeto di fiori.
Sacerdotessa dell’etichetta, delle sue regole e delle buone maniere, che esercitava con portamento altero, severità, compita freddezza, Anne Claude Laurence contessa di Noailles, era totalmente assorta nel ruolo, al quale dava importanza assoluta perché rappresentava per lei l’apice di quella grandezza che la sua famiglia, attraverso intrighi abilissimi, aveva raggiunto a corte. L’ incontro tra la Delfina e Madame de Noailles, o meglio Madame l’Etiquette, come era stata soprannominata da Maria Antonietta, era avvenuto all’isola delle Spezie, durante la cerimonia del commiato, il giorno che la piccola austriaca era stata ufficialmente accolta in territorio francese. Allora Maria Antonietta di slancio le aveva teso le braccia, ma l’altra si era scansata perché il cerimoniale prevedeva che per primo l’abbraccio spettasse a suo marito, il conte di Noailles. Da quel momento Madame l’Etiquette non aveva smesso di tallonarla da vicino, tormentandola sul modo con il quale salutare il tale o il tal altro: quando fare un cenno con la testa, quando inclinare il busto, quando, in caso di una principessa di sangue, far l’atto di alzarsi restando seduta; quando destreggiarsi con lo strascico dell’abito, quando gli inchini prescritti, quando la riverenza che doveva essere secondo i maestri “umile, graziosa e nobile”. Una serie di regole rigide e faticose, un formalismo incredibile che cozzava con l’abituale cattiva igiene e la trasandatezza di Versailles. Una schiavitù che la Delfina mal sopportava, anche perché a Schonbrϋnn non si era mai applicata.
Altezza, sono sconvolta… non dovreste permettere ai vostri animali tutte queste libertà! – esclamò Madame l’Etiquette quando si riebbe dallo shock.
E perché no? Io amo i cani, per me hanno i nostri stessi diritti… – poi rivolta all’insegnante di musica Maria Antonietta fece cenno di chiudere il clavicembalo – abbiamo finito… potete andare.
Ma altezza reale… – le corse dietro la gran maestra della casa.
– Pensavo un giorno di farmi scolpire teste di cagnolino sui braccioli delle sedie, non lo trovate originale? – rise la ragazzina uscendo dalla sala.
La formale Madame de Noailles, ferita nell’ amor proprio, allargò gli occhi offesa.
***
Si alzava una tersa mattina, fredda come un lago all’alba, nel boudoir della Delfina il fuoco era stato acceso. Dopo la vestizione alla presenza di tutti, durante la quale aveva sentito la pelle accapponarsi per gli spifferi gelati, era grata di poter sedere al caldo.
Vestirsi un’esibizione faticosa, che il cerimoniale rendeva in certi casi un supplizio. Le dame consideravano l’atto di porgere i panni alla futura regina un onore che sottolineavano con estrema lentezza e che difendevano con le unghie e con i denti: da sola l’arciduchessa non avrebbe potuto indossare alcun indumento, così stava mezza nuda per un tempo interminabile. Madame l’Etiquette aveva ispezionato la biancheria preparata dalla prima cameriera e solennemente l’aveva offerta alla Delfina. Poi aveva esibito il bustino di stecche di balena.
No Madame! Sapete bene che non lo sopporto! – aveva protestato la giovinetta.
Altezza reale oggi è domenica… c’è il grand couvert… molti verranno a vedere il vostro pranzo, l’abbigliamento dovrà essere perfetto…
Non insistete… ho detto che non lo sopporto!
La gran maestra della casa aveva alzato gli occhi al cielo rassegnata, come a chiedere perdono.
Ora, seduta davanti al bureau a cilindro, il suo angolo privato, Maria Antonietta gustava finalmente un momento di relax: leggeva, per la terza volta e con grande gusto, la lettera di sua madre. Avrebbe voluto poterla toccare, sentire il suo calore, il pensiero che quel foglio fosse stato tra le sue mani le dava sollievo. Quando vivevano insieme pensava di essere trascurata, era gelosa della sua predilezione per “Mimi”, la sorella Maria Cristina, ma la separazione aveva reso il legame più forte.
Gli occhi le si velarono scorrendo le frasi che portavano la data del 6 gennaio 1771:
Madame mia cara figlia
…. Ieri il corriere ci ha portato la notizia della disgrazia di Choiseaul. Riconosco di esserne stata colpita: nella sua condotta non ho visto che onestà, umanità e attaccamento all’alleanza, per il resto non voglio entrare nelle ragioni del re, e voi ci entrerete ancora meno. Spero che il re lo rimpiazzi e che i suoi successori meritino la nostra fiducia. Non dimenticate che la vostra attuale sistemazione è stata opera sua e di dovergli della riconoscenza. Ora più che mai avete bisogno, figlia mia, dei consigli di Mercy e dell’abate Vermond che, sapendo la sua onestà, avrà sicuramente avvertito il colpo; ma voi non lasciatevi indurre in alcuna fazione, restate neutrale in tutto, fate a ciascuno il saluto dovuto, fate ciò che fa piacere al re e la volontà del vostro sposo. Fate buone letture, sono più necessarie di qualsiasi altra cosa… soprattutto in inverno non va messa da parte questa risorsa… incaricate l’abate Vermond di farmi conoscere tutti i mesi a cosa vi siete applicata e cosa contate di cominciare… Mi raccomando di essere riservata su tutto, di non concedervi alcuna confidenza o curiosità, se volete conservare tranquillità e approvazione generale… Sono incantata dai balli che si danno da voi e che fanno gran bene al Delfino…
Maria Antonietta sospirò e ripose la lettera in un cassetto del bureau che chiuse a chiave. Non aveva capito granché del motivo che aveva spinto Luigi XV a esiliare il duca di Choiseaul, colui al quale doveva il matrimonio, colui che aveva fatto molto per l’alleanza tra Francia e Austria. La sua caduta le spiaceva perché decretava il trionfo della favorita del re, la scandalosa du Barry, e dei suoi alleati. Nonché il ridimensionamento di persone avverse a quella fazione, membri del suo entourage, come la contessa Du Grammont, sorella del duca. Più in là dei piccoli drammi delle persone vicine, l’adolescente Delfina non vedeva, sentiva le problematiche politiche astruse e lontane, non la riguardavano ed era sicura non potessero esistere situazioni di insoddisfazione: i reali in quanto divini non sbagliavano mai. Si occupava solo di sé stessa e considerava normale essere la prescelta, un dono che il signore aveva fatto al popolo, da coltivare e difendere.
Invece, proprio in quel periodo, Luigi XV aveva questioni gravi: la Francia andava incontro a una crisi fiscale, bisognava imporre nuove tasse perché il tesoro era sull’orlo di una bancarotta. Il sistema tributario aveva necessità di una riforma, ma questa era impossibile perché l’autorità del sovrano era tenuta in scacco dai parlamenti locali, dove la nobiltà pretendeva di avere il veto sugli editti del re. Ogni volta che i ministri reali cercavano di fare pagare le tasse ai nobili i parlamenti insorgevano: Choiseaul, che appoggiava questi parlamenti, aveva ovviamente perso il posto. Per dirla in parole semplici: monarchia e aristocrazia erano impegnate in una lotta per il potere all’ultimo sangue. Venire a patti non era facile e fu uno dei tanti aspetti che, tra gli altri, diciotto anni dopo sfociarono nella rivoluzione.
“Mia madre vorrebbe che leggessi, ma non c’è tempo” – pensò Maria Antonietta e guardò il pendolo: doveva andare, farsi preparare per il trucco, presenziare alla cerimonia del pranzo, il grand couvert – “chissà cosa dirà Madame l’Etiquette quando vedrà che ho invitato la principessa di Lamballe”…
***
Il grand couvert, o pranzo pubblico, era un avvenimento al quale, nei giorni di festa, chiunque fosse vestito decentemente, poteva andare a curiosare. L’etichetta voleva che gli uomini portassero la spada, ma per chi non ne disponeva ce n’era sempre una pronta ai cancelli della reggia, così come oggi chi entra al Parlamento, se non ha la giacca, può farsela prestare. Il pranzo dei reali era considerato una visione talmente appetibile che per le scale di Versailles gli spettatori correvano da una all’altra ala del palazzo per non perdere gli spettacoli in atto: il pasto di Luigi XV, di Maria Antonietta e Luigi Augusto, delle signore zie, del conte di Provenza e di Artois, fratelli del futuro Luigi XVI, che avevano residenze separate. In quei momenti i sudditi erano lune che giravano intorno al sole e vivevano di luce riflessa, così come il duca di Choigny, che aveva il compito di porgere la candela al sovrano durante la cerimonia del coucher, si sentiva risplendere in quell’atto servile perché lo metteva vicinissimo al suo signore.
Al grand couvert della Delfina e di Luigi Augusto quel giorno erano stati invitati i fratelli di Luigi e la principessa di Lamballe che Maria Antonietta aveva conosciuto, all’inizio del carnevale, a uno dei balli che la gran maestra dava nei suoi appartamenti, compito per il quale veniva strapagata. Madame l’Etiquette era gelosa di tutto l’entourage della pupilla, ma in particolare della principessa di Lamballe, perché aveva capito come fosse entrata nel cuore della sua protetta.
Quando Maria Antonietta apparve in sala insieme al Delfino, gli altri commensali erano già a tavola, Madame l’Etiquette, inginocchiata su uno sgabello con il tovagliolo su un braccio, con accanto quattro dame ad assisterla, ispezionava con gli occhi gli ufficiali della bocca per dare disposizioni. La sua posa pietrificata fu per l’arciduchessa motivo si ilarità:
– Rilassatevi Madame – commentò sedendosi.
Madame l’Etiquette la fulminò con un’occhiata, “piccola austriaca incolta” pensò ricordando come tempo prima, scivolata sul pavimento sopra il panier, le avesse chiesto: “Quando una dama va per terra col sedere che si fa?”. D’altro canto, l’ impertinenza di Maria Antonietta non era ben vista da nessuna signora anziana, la sua diversità, l’appartenenza a un casato straniero, erano di ostacolo a corte. Proprio per questo la Delfina sentiva il bisogno di un’amica vera e la principessa di Lamballe, per niente intrigante, timida, arrendevole, più grande di sette anni, decantata per la purezza, vedova infelice di un dissoluto discendente di Luigi XIV prematuramente morto, sembrava la più adatta.
Angelo mio – disse Maria Antonietta rivolta alla Lamballe – ho saputo che il caso di Mademoiselle de Lorraine è arrivato sino a Luigi XV…
Sì, è stato un grande scandalo… il sovrano ha risposto che se Mademoiselle dovesse aprire il ballo questo non creerà nessun precedente e non ha ancora dato disposizioni…
Bisogna sapere che quello di aprire i balli a corte era un grande privilegio e l’etichetta voleva che ciò toccasse alle duchesse. La madre di Mademoiselle de Lorraine, contessa lontanamente imparentata con gli Asburgo-Lorena, per promuovere la figlia aveva premuto perché si facesse un’eccezione al cerimoniale e potesse iniziare il minuetto: insomma una cenerentola in carne ed ossa che tentava la scalata sociale. Ma l’avanzamento mondano di Mademoiselle di Lorraine era sembrato una tale minaccia all’ordine costituito che l’arcivescovo di Reims e il Vescovo di Noyon furono obbligati a protestare presso Luigi XV.
Al re questo da molto fastidio – s’intromise il conte di Artois, il più giovane dei nipoti, che non ancora quattordicenne era sveglio in queste cose – cerca di lavarsene le mani ma gliene parlerò… la soluzione sarebbe far aprire le danze a Mademoiselle senza offendere gli altri…
E come? – domandò ansiosa la principessa di Lamballe.
Maria Antonietta sapeva che quello era un pasticcio architettato dal suo ambasciatore Mercy-Argenteau per favorire gli alleati. La madre di Mademoiselle de Lorraine era stata amante del duca di Choiseul e l’imperatrice Maria Teresa avrebbe visto di buon occhio la promozione di qualcuno che veniva da uno dei tanti rami del suo casato. Non potendo prendere posizione, cercò di capire il punto di vista di chi le stava intorno.
Non avete nulla da dire in proposito? – chiese al marito.
Assorto in una animata discussione sulla caccia con il conte di Provenza, fratello molto più grasso e più sgraziato di lui, Luigi cadde dalle nuvole:
Perdonatemi, non ho sentito…
Infastidita si voltò e ripose la domanda alla gran maestra:
Voi cosa dite?
Sia fatta la volontà del re – rispose Madame l’Etiquette, ma in cuor suo riteneva ignobile che una ragazzina viziata, appena arrivata lì, potesse favorire i parenti anche a costo di trasgredire le regole di Versailles.
***
All’imbrunire del giorno fissato per il ballo si videro le duchesse ferite nell’orgoglio, giovani e meno giovani, aggirarsi intorno alla corte in abiti informali, malgrado i preparativi per le toilettes della sera richiedessero molto tempo. Avevano minacciato di disertare la festa. Qualcuno se ne andò in giro canticchiando un motivetto nato lì per lì …
Sire i grandi alle vostre danze
vedranno con immensa pena
l’umile principessa di Lorena
aprir senza pudor le maestranze.
Nell’imbarazzo generale, il ricevimento iniziò con un paio d’ore di ritardo, quando la maggior parte degli invitati si decise finalmente a prendervi parte. Malgrado l’inverno non fosse finito e i vasti appartamenti, a dispetto di camini e bracieri, fossero gelati, gli ospiti che erano una moltitudine riuscirono a scaldare con i loro corpi il salone delle feste. Dappertutto fruscio di raso e velluti, bisbigliare di voci, piacevoli accordi di clavicembali e viole amplificate dall’acustica. Dappertutto l’odore inconfondibile di Versailles: quello della cipria e della pomata che serviva a fissarla. Poi, allo scoccare della fatidica apertura del minuetto, un silenzio glaciale.
Si levarono le prime note e sembrarono eterne. Mademoiselle di Lorranine avanzò in un grazioso abito rosa e amaranto sostenuto da un voluminoso panier: cenerentola avversata, ora splendeva di rivalsa. Un volteggio, un grazioso inchino. Tornò al posto con la soddisfazione stampata in volto tra la costernazione generale. Subito dopo si vide il conte di Artois, il più agile e bello dei rampolli reali, invitare una duchessa e condurla sulla scena. Un passo, due, tre. Via col minuetto. A quel punto un sospiro di sollievo si diffuse: “Anche se balla per secondo, un membro della famiglia del re è infinitamente più illustre di una Mademoiselle qualsiasi – pensarono tutti i nobili importanti – dunque questa messa in scena è solo una bizzarria, un’infrazione al cerimoniale senza conseguenze”…
Fu così che la vittoria di Mademoiselle de Lorraine venne a mancare e tra il plauso generale si ritornò all’ordine costituito: l’etichetta continuò a stabilire caste e gerarchie, il rango trionfò, le differenze tra gli uomini furono esaltate, la meschinità fu scambiata per grandezza. E la vicenda di Cerentola tornò al regno di legittima appartenenza: quello trasgressivo e incantato dei sogni.
Scena dal film di Sofia Ford Coppola. La vestizione di Maria Antonietta era un ’onore conteso tra le dame di alto rango.