Il sublime necrofilo di Robert Louis Stevenson

“Il trafugatore di salme” (“The Body Snatcher”, 1884, in R.L. STEVENSON, Romanzi, racconti e saggi, a cura di A. Brilli, Mondadori, I Meridiani, Milano, 1982)

Lo scrittore scozzese R.L. Stevenson è forse, fra quelli della sua generazione (nacque il 13 novembre 1950 e morì il 3 dicembre 1894 ad appena 44 anni), uno dei più prolifici e grandiosi affabulatori narrativi. Oggi è universalmente noto per almeno due testi: L’isola del tesoro (“Treasure Island”, 1883) e Lo strano caso del dottor Jeckyll e Mister Hyde (1886), ma la sua carriera letteraria è ricca di racconti e di romanzi fra i più inquietanti.

Figlio di un ingegnere, Thomas, che progetta porti ma si specializza soprattutto in fari, per i quali inventa nuove soluzioni ottiche, il giovane Robert ha una salute assai cagionevole, affetto soprattutto da tosse convulsa. Viene così affidato alle cure di un personaggio che risulterà determinante per la sua formazione, la governante “Cummie” (Alison Cunningham). Donna in grado di vegliare il piccolo nelle sue notti insonni, sconquassato da una tosse indomabile, di Cummi Louis esalterà “l’affetto instancabile che mi dimostrava con la capacità di soffrire con me”. Come in Proust o in Leopardi, la malattia per Stevenson finisce per diventare un banco di elezione, il propellente per immaginare mondi lontanissimi e personaggi in lotta per la sopravvivenza e la conquista del potere.

Ben presto la sua irrequietezza lo spinge ad errare per il mondo. Nel 1874 scrive alla amatissima madre: “Devi renderti conto che sarò nomade fino alla fine dei miei giorni. Non sai quanto l’ho agognato ai vecchi tempi, quando correvo a vedere i treni in partenza e desideravo andarmene con loro. Ora sai che devi considerare come parte integrante di me questa propensione alla vita errabonda”.

In un modo misterioso, come accade in Joseph Conrad (altro scrittore per il quale lo stato di allucinazione è materia che alimenta il racconto), Stevenson trascorse tutta la sua carriera letteraria alla luce delle sue peregrinazioni. In esse forse ricercava una condizione di equilibrio mentale che nella vita non raggiunse e molto spesso le sue allucinazioni si trasfondono in maniera angosciante in alcuni sublimi racconti.

In uno di questi, The Body snatcher, probabilmente l’autore raggiunge le vette della sua necrofilia. Affetto da una grave malattia polmonare, il sentimento della morte per lui diventerà ben presto il suo esclusivo orizzonte. In questo racconto immagina la vicenda di due giovani medici, Fettes e Macfarlane, assistenti del celebre professor K., cui viene affidato il compito di rifornire di cadaveri il banco di anatomia dell’Università. La storia viene raccontata, come del resto avviene anche in “Lo strano caso del dottor Jeckyl e Mister Hyde”, in flash-back da un terzo personaggio di cui sappiamo assai poco. Le lezioni del professor K. sono affollate di studenti e da quell’incarico i due giovani assistenti sperano di ricavarne un profitto in termini di carriera. Sennonché, una notte Fettes scopre che uno dei cadaveri che gli sono stati portati da furtivi esecutori, in realtà, è quello di un’allegra prostituta che lui ha incontrato nelle ore precedenti. Le salme non sono prelevate dai cimiteri, come riteneva, ma uccise per l’occasione, dato che, per le dissezioni dimostrative, si rende necessario materiale fresco. Ne parla con Macfarlane ma questi gli impone il silenzio. Il commercio continua fino a quando i due giovani assistenti, in una terribile notte di pioggia, prelevano un cadavere appena deceduto in un cimitero di campagna e, nel trasportarlo in città, si accorgono che si è trasformato in quello del giorno prima, che Macfarlane aveva ucciso e il professor K. sezionato durante la lezione.

Qui Stevenson utilizza molte delle soluzioni narrative già sperimentate da un altro grande creatore di incubi letterari: Edgar Allan Poe (1809-1849). La morte viene vista come un’allucinazione corporale allo stesso tempo nefasta e liberatoria (si prenda la vicenda complessiva di Arthur Gordon Pym, romanzo breve scritto da Poe fra il 1837 e l’anno successivo).

Gli elementi indizianti di una coincidenza quasi perfetta fra vita e creazione letteraria sono, nel caso di Stevenson, forse superiori a quelli di qualsiasi altro scrittore dell’Ottocento (secolo attanagliato da un profondo e deformante sentimento della morte). Proprio in questo racconto, egli riesce a farne una sorta di zodiaco di base, quasi dimostrando come la nascita coincida con la morte, la vita essendo un accidente solitario e quasi casuale. Non è un caso che molti di questi scrittori anglo-americani (pensiamo a Nathaniel Hawthorne, a Herman Melville, oltre che al Dickens del terribile Edwin Drood) appartengano alla cultura puritana, dove il senso del peccato irredimibile predomina in luogo del “perdonismo” cristiano. Una cultura per cui la speranza si realizza con le opere terrene e se queste si risolvono nella conquista del Male, l’individuo sarà inesorabilmente condannato da Dio. In tutto ciò c’è il riemergere di una sorta di forza barbarica del sottosuolo, un lancinante urlo di terrore che si trasfonde nella letteratura, considerata come libro mastro di quelle verità di cui gli uomini hanno paura e che Stevenson disegna sui loro visi, con tutta la grande maestria di un allucinato e febbrile creatore di incubi.

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