ANTONIO SPINOSA, La grande storia di Roma, Oscar Mondadori, Milano, 2010 (1° Ed. 1998), pp. 527, Euro 11,50
La storia di Roma e dei romani ha da sempre attratto l’attenzione di storici non professionisti e non accademici come Antonio Spinosa (giornalista del “Corriere della sera” e del “Giornale”, nato a Ceprano, nel frusinate nel 1923 e morto nel 2009). Il perché è presto detto: non c’è altra vicenda storica in grado di destare l’interesse del lettore medio più di quella di un popolo analfabeta, dedito alla pastorizia che, appena fondata una città su un colle chiamato Palatino, grazie alla sua violenza predatoria, abbia saputo conquistare il mondo allora conosciuto.
Possono variare gli approcci narrativi, certo, ma a prescindere da come la si racconti la storia dell’antico popolo romano è semplicemente avvincente e meravigliosa. Indro Montanelli, nella sua Storia di Roma, pubblicata da Rizzoli nel 1957, le fornisce un’aura realista, come solo lui sapeva fare, non disdegnando lo scandaglio negli affari sessuali dei potenti. Non meno intensa è la cavalcata di Spinosa in questo che consideriamo uno dei migliori prodotti saggistici della fine del Novecento e continuamente ristampato da Mondadori. Lo stile dell’autore è, infatti, quasi rarefatto, scarno nella sua essenzialità. Spinosa utilizza l’approccio più giusto per raccontare la nascita, l’apoteosi e la disfatta di Roma, dalla sua fondazione alla spedizione delle insegne imperiali di Odoacre a Costantinopoli, per rimettere la sua autorità di ultimo imperatore di Roma al dominio di Zenone, nel fatidico anno 476 d.C. Perché sono gli stessi protagonisti della storia romana a richiedere una semplice osservazione ed un racconto privo di orpelli. La grandezza delle guerre puniche, con la fiera contrapposizione nel suo innato bellicismo di personaggi come Scipione e Annibale, l’eroismo dei Gracchi, veri precursori di una legislazione aperta al popolo, il crepuscolo del potere cesariano e l’antagonismo con l’idea repubblicana di Crasso e Bruto, il trionfo augusteo, la necrofilia sotterranea in personaggi quali Nerone e Caligola, nonché l’era del declino, rapido e sanguinoso nel momento dell’ascesa del Cristianesimo, necessitano di un acuto osservatore e di un insigne padrone del racconto piuttosto che di un saccente analista.
Questo racconto si dipana attraverso due chiavi di lettura essenziali della storia romana. La prima si traduce nella costante tensione prodotta dalle invasioni barbariche, che Spinosa tende a far lievitare come architrave esistenziale della vicenda di Roma antica. Tanto da racchiudere in una frase, pronunciata da Gàlgano, capo di una tribù britannica, il senso essenziale della dominazione romana: “Depredare, trucidare, rubare essi chiamano col nome bugiardo di impero. Dove passano, creano il deserto e gli danno il nome di pace”. La seconda chiave di lettura sta nel fortissimo senso della morte che i Romani coltivarono molto più dei greci, anzi quasi in contrapposizione alla raffinatezza orientale. Il condottiero delle legioni si infilza con la propria spada in caso di sconfitta, Cicerone va incontro al suo destino conscio che sarà ucciso dai sicari di Antonio a Gaeta, lo stesso Cesare, pur presago del complotto che lo attende in Senato, non se ne cura e sfida la sorte e gli dei. È un cupio dissolvi che fa della vita un’apparenza, una sorta di schermo di cartapesta, pronto a cadere per effetto di una flebile pressione. La violenza viene vista come un eterno strumento, ineluttabile, di dominazione dell’uomo sull’uomo, che per i Romani diventa la cifra interiore della loro personalità e del loro agire sociale.
Spinosa si occupa poco della dottrina Cristiana, anzi, nell’accennarne, la accomuna alle altre “superstizioni” medio-orientali cui i Romani prestavano poca attenzione, se non quando assumevano un valore politico, in quanto tale pericoloso per lo Stato. Ed è così che il suo racconto, non ignaro dei simboli pagani che avevano grande eco presso la cultura di Roma, si fa addirittura coeva, sembrando di leggere Tito Livio o Tacito. Questa contemporaneità della narrazione fa di questo libro qualcosa di unico nella sterminata pubblicistica sui Romani, una fluida e percuotente narrazione che lega Romolo ad Odoacre e fa della morte un destino comune e inessenziale. La cornice è una prosa mai lunga ma secca e tagliente, priva di incisi e quasi di aggettivi, capace di denotare piuttosto che connotare, che a tratti ricorda la grandezza di Stendhal. Una capacità strabiliante di far entrare il lettore moderno nelle anse del Tevere, descrivendo il cuore del mondo come in un affresco murale, come un Requiem. La storia vissuta con gli occhi della morte.