Libri. “Via Livorno”, un’autobiografia – 3: “Oscuramento e borsa nera”

A rendere più complicata la vita ai romani dopo il coprifuoco arrivò anche l’ oscuramento: il Comune aveva ordinato che di sera nessuna finestra fosse illuminata, quindi o serrande abbassate o luce spenta in casa.

A far rispettare l’ordine erano gli uomini dell’Unpa, l’Unione nazionale protezione aerea, nelle cui file militavano per lo più pensionati fedeli al regime. Insieme ai medici, ai sacerdoti e ai panettieri, erano i soli autorizzati a girare di notte, e se vedevano una finestra illuminata gridavano dalla strada “Luce! Luce!”. Spesso una voce anonima rispondeva con una sonora pernacchia. Allora il milite dell’Unpa gridava indispettito: “Ho detto Luce, non Duce!”. Nelle intenzioni delle autorità l’oscuramento aveva lo scopo di impedire ai piloti dei bombardieri alleati diretti in volo su Roma di identificare la città dalle luci accese, scongiurando così il rituale bombardamento. 

  Di giorno, mio padre partiva da via Livorno in bicicletta diretto in centro per cercare qualcosa da mangiare: una bottiglia di latte, un fiasco d’olio, un sacco di patate, un po’ di pane nero: acquisti che si potevano fare sul fiorente mercato della “borsa nera”. Un giorno mi fece salire sulla canna della bicicletta e pedalò fino a lungotevere Tor di Nona. La meta era l’officina di un fabbro amico suo dove, fra sprizzare di faville e fumo (era in piena attività un fornello a carbone che fondeva il ferro come fosse burro), saltò fuori una bottiglia di latte, che tenni religiosamente in braccio per tutto il viaggio di ritorno, attentissimo a non farla cadere. Altre spedizioni in bicicletta mio padre non me ne offrì. Troppa fatica, “Roma non è una città da bicicletta” – brontolava –  tutta salite e discese anche in periferia, non soltanto sui fatali sette colli. Più vicino a casa un fiorente mercato di borsa nera riempiva viale delle Province, una strada larga con gli alberi al centro. Il marciapiede era invaso dai carretti e dalle cassette dei contadini che vendevano i generi alimentari di più facile reperimento: soprattutto ortaggi, verdure, frutta. A pochi metri di stanza, su piazza Bologna, apriva le sue desolate vetrine un panettiere rinomato. Ma le sue mercanzie erano scarse, e si potevano acquistare solo esibendo la tessera annonaria fornita dal Comune dalla quale il bottegaio ritagliava i bollini relativi all’acquisto: tanti per il latte, tanti per il pane, per la pasta, per i salumi. Fuori, sulla strada, analoghi acquisti comportavano, invece, il pagamento in contanti, e i prezzi li faceva il borsaro nero, e chi non aveva la carta annonaria non aveva alternativa. 

Una mattina mia madre era li per comprare delle patate. La bilancia era di quelle a mano, con il piatto di ottone appeso a tre catenelle e in alto la stecca di ferro, con le tacche dei chili e dei grammi, sulla quale scorreva un peso che avrebbe dato la misura della merce sul piatto. Pesate le patate, mia madre si accorge che sotto il piatto della bilancia era appeso un pesante mazzo di chiavi: “E questo cos’è?” chiede alla contadina: “E per regolare la bilancia perché non pesa giusto” fu la candida risposta.  Un vero e proprio inganno, un furto sotto gli occhi. Mia madre lasciò li le patate rifiutandosi di farsi imbrogliare così sfacciatamente. Ma quelle erano le regole della borsanera: prendere o lasciare. Spesso a metà mattina ululavano le sirene delle camionette della Celere. Era quando la polizia decideva di affrontare il problema dei borsari neri, per lo più contadini che venivano dalle campagne vicine, che speculavano sulla fame della povera gente di città, imponendo prezzi assurdi e sabotando la campagna del controllo dei prezzi. con la quale le autorità capitoline tentavano di risolvere il problema degli approvvigionamenti. Alla prima avvisaglia di pericolo (le sirene a tutto spiano delle camionette zeppe di agenti  sembravano volersi annunciare, quasi ad avvertire non tanto i clienti quanto i borsari neri) questi ultimi gridavano “Piove! Piove!” perché altri capissero. E chi poteva fuggiva a gambe levate, i venditori per mettere in salvo parte della mercanzia, gli acquirenti per non farsi cogliere sul fatto e, oltre al sequestro dell’acquisto, beccarsi una multa.

Era, infatti, vietato comprare a borsa nera. Ma non c’era molto da scegliere. In quegli anni mettere insieme il pranzo con la cena non era facile per le famiglie. La guerra aveva rovinato molte persone e arricchito altre, e chi poteva spendere aveva ben altre risorse che le bancarelle dei borsari neri. Molti di questi a guerra finita avrebbero messo a frutto i lauti guadagni fatti sulla pelle della povera gente e sarebbero diventati costruttori di case popolari, titolari di autolinee con gli autobus lasciati in Italia dagli americani rientrati in patria, finanziatori in nero (leggi strozzini) di chi avesse bisogno di liquidità. La ripresa dell’economia non è stata facile, si può dire che il dopoguerra sia stato più opprimente della guerra stessa. ( continua) 

Da “Via Livorno” – La Quercia editore – autobiografia di Sandro Marucci, giornalista RAI e tutor della scuola di giornalismo della Luiss Guido Carli

Condividi sui social

Articoli correlati

Università

Poesia

Note fuori le righe