Libri. “Via Livorno”, un’autobiografia – 13: “ Indimenticabile Monica”

Una palazzina signorile, sulla cosiddetta Collina Fleming, con vista sul Tevere, all’altezza di Ponte Milvio.

Per arrivare al pianoterra l’ascensore non scende dall’alto ma sale dal basso. E quando la porta si apre ne esce un signore in bermuda, capelli sale e pepe, con una bracciata di bottiglie di vino, evidentemente appena prese in cantina. 

“Prego, si accomodi. A che piano va?”

“All’ultimo, grazie”.

“All’ultimo? E da chi deve andare?”

“Da Monica Vitti, ho appuntamento”

“Lei chi è?” 

“Sono un giornalista, devo fare un’intervista”.

Quando arriviamo all’attico, l’uomo estrae dai bermuda un mazzo di chiavi e apre la porta dell’appartamento. E a voce alta: 

“Monica, c’è una visita per te”.

Michelangelo Antonioni, che all’epoca viveva insieme con la sua attrice preferita, si deve essere molto divertito di fronte al mio imbarazzo per non averlo riconosciuto. Si sarà anche chiesto: “Che razza di giornalista è questo?”. Non sapeva che io non sono fisionomista e che gaffes del genere mi sono capitate altre volte (perfino Claudia Cardinale stentai a riconoscere, non in un ascensore, ma a una conferenza stampa negli studi Safa Palatino). 

Era il 1966. Ero andato a incontrare Monica Vitti perché lei stava per cominciare le riprese di Modesty Blaise, il film che il regista inglese Joseph Losey avrebbe tratto da un popolare fumetto, protagonista una sorta di agente segreto in gonnella, appunto la Vitti. Me ne aveva parlato lei stessa dicendomi che stava finendo di leggere il copione in vista della firma del contratto.  Quando le chiesi l’argomento, si offrì di farmi leggere lo script con l’impegno, “Mi raccomando!” disse guardandomi negli occhi, di farglielo riavere due giorni dopo. Figurarsi il mio entusiasmo. Ero ancora sotto choc per la figuraccia con antonioni ma Monica era stata adorabile, aveva glissato sull’episodio e si era divertita a raccontarmi una storia che aveva in testa e che secondo lei sarebbe potuta diventare un film. Mi precedette sul grande terrazzo e indicando la Torre di Quinto, un rudere sul greto del Tevere che dà il nome alla zona a monte di Ponte Milvio, mi disse: “Vede, guardando quella torre, sogno che un giorno arrivino dal fiume degli armati decisi a conquistare Roma. Non sarebbero i primi e nemmeno gli ultimi. Un film in costume. Sarebbe divertente.”  Non potei che convenire e con discrezione mi congedai. 

Il film su Tor di Quinto è rimasto nella fantasia di Monica Vitti. Anni dopo, quando Antonioni non faceva più parte della sua vita, nello stesso appartamento al Fleming da tempo disabitato le ricordai il sogno di cui mi aveva parlato, ma non se ne ricordava più. Ero andato per chiederle di registrare dinanzi alla telecamera del TG2 una favola di Natale per l’edizione speciale del 24 dicembre.  Disponibile e amabile come sempre, Monica accettò di fare la fatina della favola con la sola raccomandazione all’operatore, non avrebbe dovuto riprenderla troppo da vicino “Sennò si vedono le rughe” spiegò con un sorriso disarmante.  A fine ripresa, mi offrii di accompagnarla a casa con la macchina. “Volentieri, grazie”. Abitava alle spalle di piazza del Popolo, in via Brunetti.  Stretti nella mia Honda Prelude, una finta sportiva giapponese con due posti davanti e un misero giaciglio dietro sul quale si arrotolò la sua volenterosa segretaria, arrivammo all’imbocco di piazza del Popolo, già allora isola pedonale e come tale chiusa al traffico. Un monumentale vigile urbano mi bloccò con gesto imperioso del braccio. Io già temevo il peggio ma Monica abbassò il vetro e gli sorrise. “Oh, signora Vitti, è lei” disse ossequioso il “pizzardone” e rivolto a me concesse, anzi ordinò: “Allora, vada, vada”. Per la prima volta da molti anni, e forse anche per l’ultima, imboccai al volante di una mia automobile la stradina alle spalle del Bolognese, il ristorante dei divi. Un privilegio che non ho dimenticato. 

Povera Monica.Da quel giorno non seppi più nulla di lei, solo pochi vaghi accenni alla grave malattia che l’ha tagliata fuori dal mondo per anni. Da allora, rivedere in tv i suoi film mi dà ogni volta una stretta al cuore. (continua)

Da “Via Livorno” , La Quercia editore 2020 , autobiografia di Sandro Marucci giornalista RAI e tutor della scuola di giornalismo dell’università LUISS

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