Ottant’anni fa arrivò in Italia “Furore”, il romanzo capolavoro di John Steinbeck ambientato negli anni della grande depressione americana, coraggiosamente pubblicato dall’editore Valentino Bompiani.
Era il 1941, l’anno XIX dell’era fascista, come indicato nella seconda di copertina, a marzo era già alla quinta edizione. Fu un successo nonostante la censura operata dal regime che impose vistosi tagli al testo americano. Il titolo italiano, che si vuole sia stato scelto dal primo traduttore Carlo Coardi, riduce ad una sola parola quello originale, The grapes of wrath, Un grappolo di rabbia, di furore appunto che ben rappresenta l’odissea di una famiglia di contadini scacciati dai campi del Midwest dopo la meccanizzazione dell’agricoltura e le grandi bufere di vento che avevano inaridito e reso improduttivi i campi, per decenni capaci di sfamare migliaia di agricoltori.
La pubblicazione del romanzo (che nell’edizione italiana rilegata in tela giallina costava 20 lire, il prezzo più alto di tutti i volumi della raccolta di letteratura italiana e straniera uscita in quegli anni per Bompiani) fu tollerata dal regime fascista perché dopo tutto descriveva un’America in miseria profondamente colpita dalla crisi del ‘29 e che faceva gioco presentare come un avversario da disprezzare: era l’anno di Pearl Harbour, gli Stati Uniti sarebbero scesi nel conflitto mondiale al fianco di Inghilterra e Francia, le due nazioni alle quali Mussolini aveva appena dichiarato guerra con il famoso discorso delle “decisioni irrevocabili” dal balcone di palazzo Venezia.Scriverlo, per Steinbeck, a 36 anni, era stata una gran fatica che aveva concluso nel 1938 in soli cinque mesi: si era documentato sui reportages del San Francisco News e per sua stessa ammissione si era ispirato a quanto sull’argomento avevano scritto Hemingway, Faulkner, Melville, riuscendo così a dare dell’America di quegli anni un ritratto quanto mai vivido ed efficace.
Con Furore lo scrittore vinse subito il premio Pulitzer e per l’intera sua opera nel 1962 ebbe il Nobel per la letteratura. La valle dell’Eden, Uomini e topi, I pascoli del cielo, Pian della Tortilla i suoi romanzi più noti anche in Italia.
Furore è la storia del viaggio di migliaia di chilometri dalla natia Oklahoma alla fertile ma inospitale California di una famiglia di poverissimi contadini, tre generazioni, nonni, figli e nipoti, tutti imbarcati su “una veneranda Hudson mezza carro e mezza berlina” (antesignana dei pick up avrebbero caratterizzato i gusti automobilistici degli americani nei decenni a venire) sulla mitica Route 66 allora non ancora asfaltata.
Scrive Steinbeck: ”A passo di lumaca i Joad e i Wilson strisciavano verso ponente… in questa fuga da tartarughe nel sole e nella polvere del Texas”. I suoi personaggi sono spinti dalla disperazione e insieme dall’illusione di un futuro migliore. I vecchi muoiono durante il viaggio, i giovani mordono il freno e vorrebbero fermarsi, a sostenere il convoglio di disperati è soprattutto la madre che infonde speranza a tutti. Un esempio, anche questo ante litteram, di “madre coraggio”, che spicca fra i personaggi più riusciti del romanzo.
Rileggendo oggi Furore è inevitabile correre con il pensiero ai disperati dei nostri giorni che fuggono da condizioni di vita impossibili nei paesi dove sono nati e cercano un futuro migliore nell’Europa di oggi come ieri nella California di Steinbeck. Un romanzo ricco di suggestioni e di acute osservazioni di denuncia sociale, che nulla concede all’ottimismo. Tant’è è vero che nell’unica versione cinematografica che ne fu tratta nel 1940 il finale fu cambiato. Così volle il potente produttore Darril Zanuck che si impose al regista, ed era John Ford, perché “senza speranza e non in linea con il New Deal”. Non sappiamo come la prese Steinbeck.
Il film girato in uno straordinario bianco e nero ebbe due Oscar, per la regia impeccabile di Ford e per Jane Darvell, la madre, accanto allo straordinario protagonista Henry Fonda. Il film in Italia arrivò solo nel 1951 accolto con sospetto dal Centro Cattolico Cinematografico che lo classificò “adulti con riserva”. Anche per i nostri censori il film era “troppo pessimista”. Avevano preso in parola lo spregiudicato Zanuck che di certo non s’era preoccupato dell’aspetto psicologico del film ma solo del successo al botteghino. Con buona pace dell’ombroso ma geniale scrittore americano, il primo a scrivere da par suo on the road.