Wilco: The Whole Love. Jeff Tweedy e l’arte del quasi. La recensione

ROMA – Esce in questi giorni uno dei dischi più attesi del 2011, l’ottavo album dei Wilco, rock band americana di Chicago fondata dal carismatico Jeff Tweedy, con ormai ben diciassette anni di carriera alle spalle.

L’alternative country degli esordi aveva lasciato spazio allo stile più sperimentale e complesso di dischi come “Summerteeth” e “Yankee Hotel Foxtrot”,  quest’ultimo con il contributo di Jim O’Rourke in fase di mixaggio: in mezzo la collaborazione con Billy Bragg per la realizzazione del progetto “Mermaid Avenue” , trasposizione in musica di alcuni testi di Woody Guthrie.
Negli ultimi due lavori si assisteva a un ritorno ad atmosfere più classiche, ma mentre “Sky Blue Sky” conteneva alcune tra le cose più belle mai scritte da Jeff Tweedy e soci, in “Wilco (The Album)” affiorava qua e là qualche segnale di stanchezza.

Drumming sincopato con inserti di elettronica, linea di basso profonda e la voce di Tweedy, mai come adesso simile a quella di Thom Yorke: è “Art Of Almost”, brano posto in apertura di “The Whole Love”,  oltre sette minuti di rock sperimentale, con un finale in crescendo in cui è la chitarra di Neils Cline a farla da padrone.
E’ il brano che dovrebbe rendere il mood dell’intero disco, così come è stato per lavori come “Yankee Hotel Foxtrot” e “A Ghost Is Born”; invece rimane un episodio isolato, messo lì per confondere che si differenzia da tutto il resto, come avveniva ai tempi di “Being There” con “Misunderstood”.  I pezzi successivi sono invece costruiti con trame  più classiche, sapientemente alternati tra brani rock a ballate in puro stile Wilco.
C’è chi ha parlato di scarsa vena creativa, oppure di proseguimento del periodo opaco già iniziato con i precedenti album: niente di tutto questo, forse la raggiunta serenità da parte di Jeff Tweedy concorre alla creazione di canzoni dalla atmosfere più rilassate, ma non per questo meno efficaci.

Certo non tutto è memorabile, anzi: il singolo “I Might” e “Standing O” si rivelano abbastanza scontate, “Sunloathe” è una ballata che gire su se stessa senza però mai incidere.
Meglio “Dawned On Me”e “Born Alone”, classici pezzi in stile power-pop che sembrano esser usciti da “Full Moon Fever” di Tom Petty; una “Capitol City” dall’andamento swingheggiante e le più intime “Black Moon” e “Rising Red Lung”.

Anche il finale del disco ci regala due inattesi colpi di coda: la title-track, con in evidenza il falsetto di Tweedy, e soprattutto “One Sunday Morning”, lunga ballata di oltre dodici minuti, con arpeggio di chitarre e spruzzate di piano che fanno da contraltare alle strofe narrate dal vocalist che, novello Cat Stevens, ci racconta del difficile rapporto tra padre e figlio, con una lunga coda strumentale che sembra sempre sul punto di dissolversi, ma che soprattutto non riesce mai ad annoiare.
È un lavoro, “The Whole Love”, che forse deluderà chi si augurava un ritorno allo sperimentalismo di “A Ghost Is Born” e che soddisferà di più chi ha amato i Wilco di “Sky Blue Sky”; non un passo indietro quindi, ma ci restituisce una band ancora in grado di dire la sua nel panorama rock internazionale.

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