2. La chiamata (seconda parte)

Lavoro non c’era, e tanto meno per tipi come lui, laureati in materie umanistiche, con esperienza da operai e camerieri, con l’autostima spezzata e una povertà da mendicanti. Si potrebbe dire che l’università invece di avergli dato un futuro glielo avesse tolto.

Non era nessuno e non sarebbe potuto diventarlo mai ( qui il significato di “essere qualcuno” non si deve intendere come un sinonimo di potenza che schiaccia gli altri esseri viventi o con un ruolo in società, Sil non era nessuno per se stesso, perché non trovava gli spazi e gli ambienti per potersi esprimere, per poter confrontarsi con gente come lui). Sil non voleva diventare un uomo di carriera, non voleva la macchina da mostrare ai colleghi o una villa con la piscina. Lui voleva solo vivere, il più liberamente possibile, senza però la paranoia di poter finire ancor di più sulla strada di quanto già fosse. 

Avrebbe voluto viaggiare il più possibile, fondersi con il mondo, perdere il suo io. I momenti che aveva per scrivere erano tanti però lo faceva solo quando era ispirato e questo non accadeva spesso. Quando era sotto l’effetto di qualche sostanza aveva l’ispirazione ma non la voglia di scrivere, e quando era normale aveva voglia di scrivere ma non aveva l’ispirazione. Sil diciamo che aveva smesso di sognare. Quando vedeva un bambino per strada pensava che un giorno avrebbe dovuto subire la violenza del lavoro e delle imposizioni di una società che lo stava e lo avrebbe modellato a suo piacimento. Intanto gli arrivò la notizia che un ragazzo suo coetaneo ma più giovane era stato arrestato per appartenere ad una banda terrorista della zona. La polizia pensava che fosse il capo perché era stato trovato vicino ad un luogo in cui c’erano degli ordigni artigianali. La polizia era entrata di forza a casa sua o meglio dei suoi genitori, in campagna, che spaventati da quegli incappucciati con le pistole e manganelli, non sapevano cosa fare. Il ragazzo di soli 26 anni è accusato di terrorismo. Picchiato, umiliato, incarcerato senza giudizio. Il tempo massimo per aspettare il primo passo del tribunale è di due anni. Era solo al primo giorno. La disperazione della famiglia di questo ragazzo deve essere stata straziante, pensava Sil. Tomàs lo aveva visto qualche volta alle manifestazioni. Era un ragazzo introverso, timido, buono. Naturalmente non era un terrorista ma la polizia adesso che il più grande gruppo terrorista della storia si era ritirato doveva prendersela con qualcuno per poter ricevere il suo stipendio. Si ricorda di qualche scontro ma essere capo di una banda armata era tutto quello che Tomàs non era. Anche lui era disoccupato, viveva in campagna con i suoi e quando poteva aiutava in casa con qualche entrata. La televisione del bar stava trasmettendo la faccia del suo amico, dicendo il suo nome e cognome. Lo stavano completamente rovinando. “In questo paese non si è nemmeno liberi di pensare diversamente. Uno protesta e lo incarcerano” – diceva un vecchio al bancone con il suo vino in mano. Sil non poteva credere ai suoi occhi. Così da un giorno all’altro. Forse non avrebbe più rivisto Tomàs per venti lunghi anni. É Assurdo come quando si cresca tutto inizi a degenerare. Le cose che abbiamo visto mille volte prendono significati diversi. Le persone cambiano e peggiorano. Il senso di vuoto si fa sempre più grande. La necessità di essere come gli altri si fa più opprimente. Il sistema vuole raccogliere i suoi frutti. Purtroppo qualcosa con Sil era andato storto e il sistema con lui non avrebbe avuto un gran raccolto. 

Lasciata Tebra a casa si dirige alla biblioteca per leggere un po’ e godere di quell’amato silenzio che la strada non aveva. “Ehi Sil! Quanto tempo! Come va?! Cosa fai da queste parti?! – chiese un giovane adulto ex collega di studi. “Bah niente di speciale, prendo un libro in prestito…..Tu?” “Eh io ho iniziato un tirocinio, mi pagano abbastanza e poi mi inseriscono come ricercatore…. una bella soddisfazione! E tu dai racconta! Come ti va?”

Sil volendo sputare in faccia a quello stronzo che gli aveva ricordato che merda fosse la sua di vita, riuscì a mantenere la calma e rispose serenamente “Io bene, scrivo e vivo”. Il ragazzo rimase un po’ colpito dalla risposta di Sil e si congedò con una scusa. Sil pensava che era quasi un delitto vivere. Uno non poteva non fare niente? Doveva per forza avere un fottuto lavoro, un fottuto guadagno, un fottuto appartamento e una fottuta ragazza? Per di più lui era obbligato a non fare niente. Nessuno lo voleva. E lui non voleva nessuno. Passato il pomeriggio a letto si stava preparando per un aperitivo serale e per lavoricchiare un po’. Dopo la notizia di Tomàs i ragazzi erano tutti al bar parlando dell’avvenuto. Tutti con la loro birra, il loro whisky, la loro faccia da cazzo e la loro ubriacatura serale. Intanto Tomàs era in carcere, trattato come una merda e privo di qualsiasi tipo di libertà sul suo corpo e sulla sua mente. Tornandosene a casa incontrò Lucia che salutando Tebra gli chiese se avesse voluto andare a casa sua per una festa che stavano facendo i suoi coinquilini. Sil per gentilezza disse di si ma in realtà non aveva nessuna voglia. Gli studenti universitari lo irritavano soprattutto in quelle occasioni. Lui aveva trentasei anni, questi una ventina. Tutti gli chiedevano la stessa cosa: cosa fai? Era come se per andare in giro uno dovesse essere il suo mestiere (cosa totalmente veritiera). Sil abituato a rispondere “nulla” accompagnato da un sorriso, se la cavava in qualsiasi occasione. Le circostanze lo portavano a pensare su quanto fosse fortunato ad essere in quella situazione esistenziale. Il non fare nulla di ufficiale, il non essere obbligato ad essere un lavoro, il poter osservare la vita scorrere in modo neutrale lo faceva sentire privilegiato. Non doveva preoccuparsi di svegliarsi la mattina, nemmeno la notte a che ora andare a dormire. Non doveva rendere conto a nessuno di cosa gli balenava nella testa e di cosa volesse fare. I suoi sogni se li poteva tenere per sé. Non doveva condividere la sua esistenza con qualche sconosciuto impostogli e non doveva eseguire gli ordini di nessuno. Le persone normali invece dovevano svegliarsi, prendere la macchina o un mezzo pubblico per recarsi nel posto di lavoro e quindi subire il forte stress che ti viene dato dall’impatto con le altre persone nella tua stessa situazione. Dovevano mangiare male e di fretta durante la loro ora di pausa e poi tornare al loro posto. Finita la giornata nel vero senso della parola, sarebbero tornate a casa, avrebbero portato a fare un giro il loro cane o i loro figli, avrebbero fatto la spesa, cucinato e con quel poco che gli rimaneva delle loro forze forse visto un film (che gli avrebbe sbattuto in faccia la propria realtà di merda in modo gradevole e divertente). Sarebbero dovute andare a dormire entro mezzanotte perché la mattina seguente avrebbero dovuto alzarsi ed essere fresche per andare nuovamente a lavoro. Così cinque o sei giorni di fila per poi arrivare alla meritata domenica nel corso della  quale dovevano fare tutte le cose che non avevano fatto durante la settimana senza averne le forze. Sil quando pensava a questo si rasserenava poiché non stava buttando la sua esistenza in un edificio, dentro quattro mura. 

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