ROMA – Il sole quel giorno era alto; un bel giorno per essere dicembre, stranamente caldo, quasi primaverile. Pietro stava cercando di chiamare il cugino ma questo non si faceva sentire. Orazio nel frattempo aveva avuto la brillante idea di andare per qualche settimana in Spagna dove aveva vissuto per qualche tempo in precedenza per ritrovare i suoi vecchi amici.
Partì così, senza avvisare nessuno, da un giorno all’altro. Quando arrivò si sentì come una volta, pieno di voglia di viaggiare, di vivere, di conoscere nuova gente; qualsiasi cosa lo entusiasmava. E poi aveva davanti a sé una novità che il suo amico Juan gli aveva tenuto nascosta fino a quel momento. Era la figlia di Juan, Marè, che aveva solo pochi mesi. Era una bambola, e quando per la prima volta la tenne in braccio, in quell’istante cambiò idea sul fatto di riprodursi in questa vita. Era stata un’emozione mai provata prima, era pieno di gioia per il suo amico che vedeva cresciuto, felice e per fortuna non cambiato dopo questo evento. Juan era stato il suo compagno di stanza per un po’, e da quel momento in poi i due divennero grandi amici, di quelli che pur non vedendosi per tanto tempo, poi quando si rivedono si accorgono che tra di loro non è cambiato nulla, e che la loro amicizia era sempre stata intatta e non indebolita dallo scorrere del tempo e dalla distanza. Quante cose che si dissero quella prima notte attorno al fuoco, bevendo birra e mangiando del formaggio. Juan viveva in un paesino di pescatori, in una casa enorme che non pagava quasi niente, e coltivava la terra che in quel luogo era facile da poter trovare. Il posto era meraviglioso, non c’era niente, completamente immerso nella natura, tra il mare e l’Oceano. Le persone trattavano Orazio con gran ospitalità e gli erano amiche. Campanin infatti non aveva mai avuto problemi a fare delle amicizie, era un tipo espansivo, non era timido. Solo vivendo in quella città del nord est era diventato così. Tutti gli dicevano di rimanere, che sarebbe potuto restare in quel posto quanto voleva, ma Orazio non voleva entrare così nella vita delle persone, e promise che un giorno sarebbe tornato per restare per un periodo di tempo che sarebbe stato abbastanza lungo, doveva solo organizzarsi. Quei giorni passarono troppo in fretta, Orazio dovette tornare troppo presto. Che festa che aveva fatto! Una notte lui e Juan erano stati fuori fino alle sette del mattino bevendo birra e licorcafè; tutta la notte; avevano anche giocato a scacchi…
Orazio in questa occasione parlava con gente che nemmeno il suo amico conosceva; si vedeva che aveva proprio voglia di scambiare due chiacchiere… Una volta tornato in Italia trascorsero pochi giorni di entusiasmo per il tempo passato via e poi quasi improvvisamente Campanin ritornò alla monotona quotidianità. Questa volta però era contento perché aveva rivisto un amico, un suo simile, che ancora stimava e a cui voleva bene. Era felice di vedere che Juan se la cavava. La gente della sua età intanto viaggiava, studiava o lavorava all’estero, aveva fatto “carriera”. Orazio invece viveva come quando era alle superiori, anzi come quando era alle scuole medie, in casa con i suoi genitori, non uscendo, e non facendo nulla. Gli pareva di essere un malato, che doveva aspettare la guarigione, che solo il tempo può portare. Anche volendo uscire da quella situazione di infermità, Orazio si era reso conto che non avrebbe potuto, perché non poteva permetterselo. Era facile studiare all’estero, viaggiare, lavorare in posti privilegiati se si avevano le possibilità per farlo. Campanin non voleva essere un mantenuto. Era una situazione che ogni giorno si faceva sempre più opprimente.
“Ehi ciao Lello! Come stai?”rispose Orazio al telefono. “Ueh Orazio! Allora che fai stasera? Bacarata per Venezia? Ti va?” chiese Lello tutto contento. “Vada per Venezia! Ci vediamo in stazione alle sei! Ciao!”. Campanin si preparò per la serata e si avviò verso la stazione dei treni, contento di poter sviare i suoi pensieri stando fuori da quella città per qualche ora. Una volta in stazione però, la città non gli diede tregua, e appena fece per andare a comprare i biglietti al bar della stazione, la cassiera, una cicciona alla quale Orazio avrebbe subito sputato in faccia, gli disse in quel dialetto che tanto odiava che non aveva da “cambiare” e che quindi avrebbe dovuto andare a fare la coda in biglietteria, quando per un biglietto chilometrico aveva tutto il diritto di poterlo avere in quel bar. Orazio per un minuto rimase lì fermo, avrebbe voluto saltare al di là di quel banco, che lo divideva dalla cicciona e prenderla a calci fino a farla svenire. Ma questo fu quello che gli balenò nella testa e che naturalmente non fece. Quindi prese, se ne andò, cambiò i soldi al tabacchi e ritornando dalla vecchia cicciona tanto amata le gettò i soldi sul piatto, richiedendo la stessa cosa con tono fermo e calmo. La cassiera non disse nulla e diede a Campanin quei tanto sudati biglietti. Non era ancora partito, era salito in treno e subito al suo fianco prese posto una compagnia di allegri boy scout. Inizialmente ad Orazio venne da ridere, perché per lui i boy scout erano ridicoli con quei pantaloni alla zuava corti, con il crocifisso al petto e i loro tipici nomignoli che li dividevano in settori. Poi cominciò ad essere infastidito dalla loro presenza perché non potendo non ascoltare i loro discorsi, si era accorto di una falsa allegria nell’aria, di un falso ottimismo, e di una falsa relazione tra i componenti del gruppo. Avranno avuto due anni in meno di Campanin ed erano contenti di andare a Venezia per fare una caccia al tesoro, che alle sette doveva essere finita comunque, perché il sole sarebbe sceso. Preso da ira e da incredulità Orazio cambiò posto, accertandosi che nessuno di quei ragazzi lo seguisse e attese il meritato arrivo nella città lagunare.