La scarica dei 101. La retrocessione in serie B

La crisi di un militante è come quella di un ultrà, coincide con le sconfitte della propria squadra del cuore. C’è una completa “falsa” identificazione con i giocatori. Si sente vergogna. Perché avviene sovente sul campo che quel che fai di tutto perché non accada nella vita quotidiana, qualcuno, i tuoi eroi, i tuoi rappresentanti, lo fanno accadere senza pudore. Allora una disfatta calcistica, o parlamentare, nasconde una sconfitta più dura, quella tua, personale. E tu, spettatore, sei nudo (spogliato) di fronte a fatti più grandi di te.

La retrocessione in serie B della mia squadra, il Pd, è avvenuta il 19 aprile 2013.
Quando sentivo già traballare il mio posto di lavoro come operatore sociale, per via dei tagli, della crisi e del debito del Comune con la mia azienda, ero al bar. Di fronte alla televisione, accesa a volume alto su la7.
Era il secondo giorno di votazioni per il Presidente della Repubblica, la quarta chiama.
Con Tonino eravamo andati in loop di dirette lunghe di Mentana. Tra il suo rosso e le mie bionde, il Mitraglia ci raccontava tutto. Facendo fermare qualsiasi politico dai suoi scagnozzi e interrogandolo sul misfatto che si stava compiendo.
La cosa era giornalisticamente parlando perfetta, ma noi la sentivamo come una tortura medievale. Come uno spareggio che si sarebbe deciso ai rigori. Ed Enrico tra un calcio e l’altro riempiva le pause con parole, faccioni e dibattiti. Maledetto!
Tonino ripeteva:
“La faranno zozza, se sò partiti co’ Marini, mò se buttano sulla Cancellieri”.
Ed io invece avevo un diavoletto sulla spalla che mi faceva nell’orecchio:
“Rodotà! Rodotà!”.
Spiego a Tonino che ci credo ancora.
E lui:
“Ma che stai a dì, nun c’hanno le palle! Sò orgojosi, questi pur de nun appoggiallo sò capaci de sfascià er partito!”.
Poi l’annuncio di Bersani:
“L’ Assemblea all’unanimità ha acclamato la candidatura di Romano Prodi”.
Ed io:
“Hai visto vecchio? Ed ora ci riprendiamo il Paese!”.
Ho iniziato ad immaginare Romano che dichiarava l’ineligibilità di Berlusconi. Che con la sua voce rassicurante, il suo accento emiliano, dava una pacca sul buon Pierluigi, dicendogli:
“Figlio mio, va e prova a chiedere la fiducia in Parlamento”.
 Ma Tonino:
“Sta in guardia, bada: questi so paraculi. Hanno impallinato Marini e mò a Prodi je faranno pelo e contropelo”.
“Ma che dici? Ma chi? Prodi è stato il padre dell’Ulivo. Lui li ha messi tutti insieme, è stato l’unico a sconfiggere la destra. Ma perché dovrebbero farlo fuori? Ora basta. Stai sempre a dargli contro. L’hai sentito Gigi? Dice che si sono riappacificati, che sono tutti compatti, che lo hanno acclamato in assemblea”.
“A bello, ma tu in che sezione sei cresciuto? Che nun lo sai che se devi faticà te lasciano parlà, ma che se arriva un dirigente te tappano la bocca? Je stendono er tappeto rosso e j’apparecchiano er discorso. Ecco, l’assemblea è quarcosa der genere. C’è la direzione che dice quello che ha già deciso e se poi quarcuno lo contesta, se lo segnano. Lo fanno entrà nella lista nera. Poi si votano le mozioni. Quelle dei potenti per acclamazione. Der tipo: ce sò contrari? Quelle dei contestatori ad alzata di mano, guardando i coraggiosi negli occhi, fino a fargliela addomermentà quella mano. Ma te pare che sti viscidoni cagasotto le cose le fanno in assemblea. Che arzano er dito, sfatano er tabù dell’esse omertosi coi reggenti e ortretutto se autodenunciano. O vojo vedè a un renziano che se arza e dice:  mò basta, m’avete rotto er cazzo! Io Prodi nun lo voto! Bersani vattene a casa! E magari: Ah, io so pure de destra!”.
Non capivo quelle parole, anche se in sezione è un po’ così. Quando ero un Giovane Democratico e proponevo di partecipare a certe manifestazioni, mi si rispondeva di no. Domandavo il perché e loro
mi rispondevano che la dirigenza non aveva aderito e che non si poteva andare contro la dirigenza. Non avevo scelta, non c’era dibattito. Ero costretto a partecipare alla protesta a titolo personale, magari insieme agli altri giovani che frequentavano la sezione.
Ma continuavo a non capire la posizione di Tonino:
“Ok, i franchi tiratori ci sono sempre stati, ma quanti potranno essere mai questi franchi tiratori?”.
“Gioia mia, sto partito è un campo de guerra. Sò furbi e sò tanti. Secondo me vonno fa fori Bersani. Vonno le poltrone”.
Speravo nella demenza senile di Tonino, ero felice. E aspettavo lo spoglio con fiducia. Stavolta potevamo cambiare il Paese. Mettere i Cinque Stelle spalle al muro e cancellare il Caimano dall’almanacco della politica italiana. Mi sentivo anche un po’ coglione, come se partito per vincere lo scudetto, mi preparavo a festeggiare per la salvezza. Per mortadella al Quirinale e per un governo di minoranza che andasse a cercare ogni volta i voti sui singoli emendamenti. Ma in fondo non era quello l’importante, l’importante era ribadire una coerenza di pensiero, una maglia, un colore. Del tipo, palla a Romano e ci abbracciamo.
Se alle precedenti votazioni i grandi elettori erano riusciti a votare Valeria Marini, Rocco Siffredi e il Conte Mascetti, ora mi aspettavo da loro una bella maggioranza assoluta. Di rapina, senza i tre quarti del parlamento. Una goduria, un gol al novantesimo, di mischia in area. Certe cose si fanno solo se ci si crede…
Niente.
Centoundici piddini una volta chiusi nell’urna hanno lasciato la scheda bianca o hanno scritto il nome sbagliato. Centoundici, forse centoquindici, forse centoventi. Il centro sinistra aveva a disposizione quattrocentonovantotto cartucce più i due presidenti delle camere, a Prodi bastavano cinquecentoquattro timbri. E c’è chi dice che nel M5S qualcuno abbia disobbedito alla linea grillina, come era accaduto per l’elezione di Grasso.
Ma chi è che ha sbagliato i rigori?
Secondo Tonino chi non era nemmeno in panchina.
“Sò stati D’Alema e Renzi a fatte lo scherzetto”.
“Non può essere così. Matteo le cose le dice in faccia, hai visto che ha fatto con Marini? E D’Alema oramai non ha più il peso di una volta. E’ un pensionato che porta a spasso il cagnolino!”.
“Non ce capisci un cazzo!”.
Ad oggi nessuno nel Pd è riuscito a capire chi abbia determinato la sua disfatta.
Me la presi subito con gli amici di Marini, con l’area di destra, con tutta l’ex Margherita, ma contandoli mi accorgevo che non bastavano per fare uno sgambetto così grosso.
E Tonino che girava il coltello nella ferita:
“I numeri se raggiungono facile, basta che ce sommi renziani e dalemiani”.
Preferivo vedere traditori nei giovani turchi, preferivo pensare all’ennesimo harakiri dei bersaniani. Un suicidio voluto. Questa era la risposta che più mi consolava. Oramai tutto ciò che non andava era colpa sua. Anche questa doveva essere una sua trovata. Sì, nella mia testa era lui il colpevole, aveva provato a tirare l’ultimo rigore di tacco.
Ma di lì a poco Mentana, instancabile, mi riportava con i piedi a terra: “Bersani si dimette da segretario, la Bindi da Presidente del partito”.
Stavolta allora lui non c’entrava niente. Lui era la vittima, non il carnefice.
E Tonino ribadiva le parole più fastidiose da sentire per un giovane della generazione più dimenticata della storia:
“Te l’avevo detto! Tu non mi ascolti, non vuoi imparare”.
Non volevo imparare un corno! Tra lettiani, veltroniani, bindiani, franceschiniani, dalemiani, bersaniani, prodiani, giovani turchi, teodem, e chi più ne ha più ne metta, avevo capito solo che non sapevo più per chi avevo votato. Che questo mistero è tutt’altra cosa da risolvere rispetto ad una partita di Cluedo. E che il Pd è un fottuto cubo di Rubik con tessere di più colori di quanti sono i suoi lati.
Era il 19 aprile 2013 Prodi dal Mali appresa la notizia della sfiducia datagli dal suo partito ritirava la propria candidatura. Piangevo come solo ieri ho rifatto dopo il gol di Lulic alla mia Rometta. Si sgretolava la coalizione del Bene Comune, con Vendola che faceva ciao ciao. Si spegneva la luce nel Pd. E allora?
I passanti da Mentana ammettono di non avere più idee.
E Tonino alticcio canticchiava:
“Meno male che Silvio c’è…”
Il giorno a seguire tutti in ginocchio da Napolitano, lui accetta, ma a patto che si baci la morte.
E morte fu.

Non è un caso che da allora io abbia un sogno ricorrente: Giorgio Napolitano mette il fischietto alla bocca, in tribuna d’onore Il Cavaliere sorride ad una ragazzina, Mister x prende una lunga rincorsa, il portiere, Brunetta, improvvisa un balletto per distrarre il tiratore, lui calcia la palla alla destra dell’estremo difensore, la botta è molto angolata. La Russa, il telecronista, grida: “Fuori, fuori. E’ andata fuori. Il Pd è in serie B”. I tifosi lasciano gli spalti. Tranne due. Hanno dei bicchieri in mano. Uno è anziano, dice: “Lo sapevo”. L’altro è più giovane: “Sono stato io a fare questo?”
La mia crisi è iniziata qui.

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