Gli italiani e gli extracomunitari. Siamo un popolo di razzisti o no? (1°parte)

 

Mentre scrivevo il mio libro “Terra d’Ombra”, nel corso di ricerche mi sono imbattuta in testimonianze che costringono a ripensare il nostro  vissuto; diversi italiani, tornati in tutta fretta dalle nostre ex colonie, da territori dove erano stanziati proficuamente (Egitto, Tunisia, Turchia) o per vicende contestate ( Istria e Dalmazia),  nel secondo dopoguerra,  lamentavano di essere stati trattati alla stregua di clandestini nella loro stessa patria, di imbarazzi da gestire, di “diversi”. Per non parlare della poco conosciuta storia di italiani del nord est i quali, emigrati in Romania a cavallo del ventesimo secolo, ne furono addirittura espulsi , spesso con fama (vera o presunta) di molesti. Si trattava di minoranze, in ogni caso, così come i nati delle unioni tra uomini italiani e donne africane; pertanto i governi susseguitisi nel tempo se ne occuparono come e quando poterono, non sempre bene, non sempre con equità, ma questa è un’altra storia.

Secondo le idee politiche, gli italiani si sono nel tempo posizionati rispetto allo “straniero”, con l’handicap notevole di non possedere loro stessi un’identità condivisa ( non i soli, in verità, si pensi a Belgio o Regno Unito). Se, nel secondo dopoguerra, l’unità esisteva da circa un secolo, è pur vero che era stata messa a dura prova dalla connotazione fortemente discriminatoria delle condizioni tra le diverse aree del paese, da due conflitti e una dittatura. I flussi migratori da sud a nord crearono senza dubbio disagi e crisi di assestamento, le cui cause sono stata spesso analizzate senza trovare una effettiva composizione,  se si è dovuto assistere all’emersione del fenomeno leghista.

La caduta del muro nel 1989, con quel che ne è seguito, per le menti lungimiranti o meglio informate, presentava aspetti da tenere sotto controllo, da gestire quantomeno, ma ciò  non sembra essere avvenuto. Se ci esercitassimo nell’obsoleta abitudine di cercare responsabilità, diremmo che la politica ha fallito. Gli arrivi di cittadini cosiddetti non comunitari in Italia, in quantità che non si potevano ignorare, iniziarono negli anni settanta, quando prese a circolare qualche appellativo come “vu cumprà”, visto che si trattava soprattutto di maghrebini ambulanti per le nostre spiagge.

Acqua è davvero passata sotto i ponti da allora e la penisola è alquanto cambiata. Ammettiamo pure che la nostra classe politica sia stata molto occupata a tenere a bada il terrorismo, le mafie, l’inflazione, a reperire risorse energetiche sempre a rischio e, per questo, costretta ad acrobazie diplomatiche in tempi di guerra fredda. Sia pure. Tuttavia qualcosa è mancato, se nessuno ha pensato al problema immigrazione e alle sue conseguenze. Si è lasciato che a interessarsene fossero la chiesa o  gli enti di derivazione partitica schierati a sinistra, marchiando un evento storico, come l’esodo epocale di milioni di persone, soprattutto quale occasione elettorale: da una parte di chi voleva ” nuovi cittadini” da immatricolare nel progressismo ( noi siamo dalla vostra parte), dall’altra per gridare allo straniero che ci avrebbe invaso.

Negli anni novanta si formò questa contrapposizione, in realtà malata: non sempre a sinistra si è così aperti, non sempre a destra si è razzisti. Provare per credere. Va detto, perché  il pensarlo ha danneggiato, a nostro avviso, la causa dell’integrazione, non cercando “grandi intese” laddove invece sarebbero state utili ( forse i pensieri alti di bicamerale e similari non consentivano escursioni nei bassi dell’esclusione?). Intanto la gente continuava ad arrivare: con un visto dei nostri consolati (come ottenuto?), o clandestinamente sì, ma non solo su barconi e tir di mucche, a volte con l’aereo: dipendeva forse da chi sponsorizzava l’arrivo. La questione era sedata, in un certo senso, e si andavano formando mode. La musica etnica era una delle più in voga. Nulla di più “in” che farsi vedere a un concerto all’africana, per una platea moderatamente evoluta; o avere quella quota di conoscenti del terzo mondo, che ti consentivano di affermare fiero “Io non sono razzista”, aggiungendo a piacere un “ma gli zingari, ma gli spacciatori, ” etc. E fosse stato solo questo, forse in seguito qualcosa sarebbe intervenuto a mettere ordine in una materia arrembata sempre a botte di leggi un po’ d’urgenza, sanatorie, decreti, iniziative discutibili, come quando riportarono un gruppo d’albanesi in patria con la scusa di un trasferimento.

Di mezzo intervenne un fatterello come l’attacco dell’11 settembre 2001 e gli italiani scoprirono in una botta sola terrorismo e Islam, facendone un sol fascio. Perché, direte voi, prima non esistevano? Non se ne erano accorti? Temiamo che l’Italia abbia dormito un po’, ma va capita, amici migranti. Non ha conosciuto il fenomeno del colonialismo “professionale” di altri paesi, non aveva dimestichezza con il diverso, a meno che non lo si incontrasse durante un’escursione esotica in vacanza; con i popoli  non ci ha mangiato o sudato insieme, non ne sapeva praticamente nulla. Non ha mostrato  forse il dovuto rispetto, ma nemmeno quella minima conoscenza che a  un francese o a un inglese derivavano da una consuetudine , di sfruttamento, ma utile a conoscere qualche elemento fondamentale. Così si è scatenata una bagarre, frullando proclami da crociati e leggi “bossifini”, dove, tra le altre amenità, era scritto che occorreva sorvegliare i “finti matrimoni”…che  imperversano, in realtà,  solo perché qualcuno lo ha sempre permesso, quando non incoraggiato. Così, dal 2001 abbiamo avuto un bel nemico da combattere, servito fresco, anzi caldo di attentati ( in realtà mai cessati anche nel decennio precedente); e con questo stigma bene in mente, siamo andati in giro a far compagnia al texano dagli occhi di ghiaccio Dabliù Bush, ma pure alla colomba Blair, portando, secondo la vulgata, sorrisi e brava gente, ma sotto il vessillo di una guerra bella e buona. Nel frattempo l’immigrazione non si è fermata, né quella dai paesi “canaglia”, né l’altra da dove veniva comodo per la manodopera a basso costo, subito arruolata dalla malavita; in più c’erano i nuovi profughi, provenienti dalle zone dei recenti conflitti; e inedite problematiche si affacciavano all’orizzonte, mai considerate degne di un opera di programmazione: poco produttiva elettoralmente.

E dunque, qual è lo stato delle cose? Siamo meno razzisti? Ci siamo ricordati di essere stati migranti a nostra volta, schedati, schifati ed emarginati con etichette indelebili (una per tutte, mafiosi)? Chi lo sa. Una cosa è certa: nonostante la buona volontà di alcuni o molti, l’interesse è confinato in frange della società: quelle antagoniste, politicizzate, a volte un po’ miopi. Perché non è una materia da tagliarsi col coltello; perché, al netto degli ex governi berlusconiani e delle intemerate della Lega, un dibattito onesto è mancato, mentre la società camminava; sono arrivati in massa indiani e cinesi,  la crisi del 2008 miete vittime di guerre senza carrarmati (almeno non visibili), e rischiamo di perdere la ricchezza dell’emigrazione, tenendone solo gli inevitabili aspetti difficili. Senza contare un sospetto che coviamo da tempo: noi coinvolti nell’argomento, siamo davvero esenti da razzismo? O piuttosto non guardiamo altrove, all’Africa per esempio, come alla terra promessa che ci monderà delle nostre stanchezze, della bolletta e dell’affitto, dei due divorzi e dei figli che non ci danno tregua, del posto di lavoro perso e di ciò che non abbiamo ottenuto dal momento in cui lo abbiamo desiderato? (1° – continua)

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