8 marzo al femminile, ma i roghi non si sono fermati

ROMA – La data dell’8 marzo, Festa delle donne, come molti sanno, è stata scelta per commemorare un tragedia immane: il 25 marzo 1911, un incendio divampò a New York distruggendo la camiceria Triangle Shirtwaist.

Nel rogo morirono  centoventinove ragazze: siciliane, russe, ucraine, polacche.  Quella carneficina divenne il marchio d’infamia dello sfruttamento femminile e, dicono gli storici, cambiarono la coscienza americana. Tre di quelle donne erano italiane e, come tutte le altre morirono rinchiuse in quella fabbrica maledetta, dove venivano sfruttate in modo disumano.
La carneficina mosse le coscienze e fece in modo che le autorità inasprissero le pene per lo sfruttamento sul lavoro a cottimo e vennero introdotte le famose scale esterne, che disegnano le vie laterali e buie delle grandi città americane. Le salme delle centoventinove donne ora riposano nell’immenso cimitero dei Sempreverdi fra Brooklyn e Queens. Le centoventinove donne morirono in un modo orrendo per colpa di un kapò, braccio armato dei padroni in doppiopetto,  al quale importava soltanto guadagnare sfruttando le donne come bestie da soma , rinchiudendole a chiave, per 12/14 ore al giorno, nella fabbrica di camicie.
La nostra, cosiddetta, società civile, continua in modo subdolo a sfruttare le donne innalzando invisibili roghi che non distruggono più il corpo delle donne ma la loro identità femminile.

I nuovi padroni, che hanno con piacere abbracciato il credo della globalizzazione, che li esenta di mostrare la loro faccia da carnefici alle vittime dello sfruttamento, continuano a accendere roghi assoldando nuovi kapò in Italia e in tutte le parti del mondo.
Soprattutto in Oriente dove la donna è sempre sottomessa all’uomo ed è lei a fare i lavori più umilianti e pesanti. Se andaste in India, per esempio, potreste assistere a scene nelle quali vedreste tre o quattro uomini i quali aspettano oziando che una o due donne portino loro i secchi pieni di cemento che poi loro, i maschi della specie, non faranno altro che far scivolare nella gettata del cemento armato. E questa è una costante nel medio e lontano Oriente: gli uomini fannulloni ‘pensano’, le donne e i bambini si spaccano la schiena nei lavori pensanti e disumanizzanti. Per i bambini maschi poi tutto finirà quando raggiungeranno la maggiore età, per le femminucce no, il loro calvario finirà solo con la loro morte. E per chi si ribella c’è violenza e morte, data dal padre o dal marito che l’ha comprata dal padre.

Ma anche nelle nostre civili contrade, nascoste in capannoni fatiscenti, migliaia di donne orientali sono bruciate vive da un vero e proprio schiavismo: lavorano per un salario da fame anche sedici ore al giorno, mangiano e dormono nello stessa stanza dove lavorano … la vista del cielo per loro è un’utopia. Tutto questo sfruttamento, tra l’altro, distrugge anche interi settori dell’industria e dall’artigianato, facendo chiudere le fabbriche che non accettano questi tipi di sfruttamento.
Molti di noi avranno visto nei reportage televisivi  il caso delle fabbriche di divani che hanno chiuso per far posto ad industrie globalizzate che non si fanno nessun problema nello sfruttamento delle donne, le quali creano un prodotto reclamizzato dall’unica donna in Italia che non sa di queste tragedie umane: la Ferilli che con il suo bel sorriso stampato e si suoi improbabili zigomi ripete da anni “Beato chi se lo fa il Sofà”. Ebbene, cara Sabrina, il sofà lo fa una donna resa schiava anche da cretini come te, te che fai finta di non sapere.

Poi ci sono i roghi che bruciano povere ragazze venute dall’Est e dal Sud del nostro mondo. Sfruttate, violentate, picchiate, rese merce da comprare dai nostri bravi maschi di famiglia che dicono di non saper che stanno violentando minorenni schiavizzate da altri violentatori, materialmente più violenti di loro, ma forse, per lo stato sociale da cui provengono, meno violenti nel pensiero, che annulla l’immagine femminile.

Poi ci sono i roghi senza grida che, nelle nostre ‘tranquille’ dimore, inceneriscono l’identità umana di migliaia di donne paralizzate da invisibili camicie di forza che sono state imposte loro da  una religione e da una società patriarcale che percepisce la donna o come santa o come puttana. Anche se molte donne riescono ad affrancarsi da questo status quo, passando tra Scilla e Cariddi, ovvero tra religione e ragione patriarcale, molte altre, tante, troppe, soccombono e rimangono nelle case anestetizzando il loro dolore psichico con psicofarmaci e alcool, e procreando bambini e bambine che devono castrare psichicamente, come comandato in silenzio dai padri.
A queste donne diciamo che una mancata realizzazione al femminile porta solo ad un suicidio psichico ed umano. E lo diciamo con le parole di un uomo che deve aver amato molto le donne: “Tempo verrà /che amerai di nuovo la straniera che era la tua immagine./Offri vino, offri pane. Rendi il cuore a te stessa,/ allo straniera che ti ha amato per tutta la vita./Che hai ignorato per un’altra e che ti sa a memoria./Dallo scaffale tira giù le lettere d’amore,/le fotografie , le note disperate,/ sbuccia via dallo specchio la tua vecchia immagine./Siediti, è festa: la tua vita è in tavola.” Derek Walcott.
Donne, oggi 8 marzo, e per sempre, la vostra vita è in tavola, e aspetta di essere assaporata.

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