Fondi per la cultura. Anche la teoria economica conferma che è lo Stato a doverla finanziare

Forse Tremonti non lo sa (in fondo è un avvocato tributarista, laureato in giurisprudenza, quindi non molto ferrato nella teoria economica), figuriamoci quelli de “Il Giornale”, i quali sparano su Nanni Moretti che sarebbe il responsabile dello scriteriato aumento delle accise sui carburanti per ripristinare il Fondo unico per lo spettacolo (Fus); come se fosse il ministro dell’economia. Ma è proprio la teoria economica ad aver chiarito che, nella maggior parte dei settori dello spettacolo, senza un persistente finanziamento statale, è impossibile coprire i costi di rappresentazioni e messe in scena.

La cosiddetta “teoria economica dell’arte” ha un autore molto prestigioso: W. Baumol che, insieme a W. Bowen, nel 1966 pubblicò un saggio divenuto poi celebre, in cui postulava la sua “Legge della crescita sbilanciata”. Secondo gli autori, la realtà economica ci prospetta due tipi di crescita: quella di settori che riescono ad aumentare la produttività, adottando il modello delle economie di scala e quindi ad accrescere il valore aggiunto di beni e servizi, contribuendo in modo determinante alla crescita di salari e profitti e quelli in cui non si ha alcuna crescita della produttività.

Com’è noto a qualsiasi studente di economia, l’aumento della produttività è il motore della crescita economica. Produttività significa, in parole povere, produrre di più e meglio in meno tempo, con un’organizzazione del lavoro più efficiente, con manodopera più capace (cosiddetto modello del “learning by doing”), agendo sulle leve della tecnologia e dell’aumento dell’efficienza marginale del capitale. Non ci può essere sviluppo senza aumento della produttività. Il grande economista austriaco, poi naturalizzato americano, Joseph Schumpeter riteneva che l’essenza della società capitalistica fosse una combinazione ottima fra propensione al rischio degli individui ed utilizzazione efficiente delle innovazioni, che consentono un aumento progressivo della produttività.

Ora, però, secondo la teoria di Baumol-Bowen ci sono settori che non possono registrare alcun aumento di questo fondamentale parametro. Per spiegare questo punto, i due economisti proposero l’esempio di un quartetto di Mozart. Esso, nel tempo presente, deve essere eseguito esattamente come lo si eseguiva duecento anni fa, con gli stessi strumenti. Non c’è alcuna possibilità che il progresso tecnologico (ad esempio un’amplificazione che consenta un pubblico di diecimila persone) possa incrementare la produttività del quartetto. Siamo di fronte, dunque, al classico caso di un’attività umana economicamente stagnante che, se non è supportata dalla collettività (cioè dallo Stato), non potrà mai essere economicamente efficiente, esattamente come non lo è, ad esempio, la spremitura dell’uva con i piedi, invece che con apparati meccanizzati. E quindi è destinata a perire, ad essere riposta in soffitta. L’unico rimedio che questa teoria suggeriva, se non si vuole dimenticare la musica celestiale di uno dei più grandi geni che l’umanità abbia mai espresso, è che lo Stato decida di finanziare il quartetto con contributi a fondo perduto, soltanto in parte recuperabili dai proventi dei biglietti venduti.

L’esempio mozartiano naturalmente è applicabile a molti altri settori dello spettacolo: si pensi all’opera lirica e a quella sinfonica, al balletto, al teatro che non possono in alcun modo nemmeno coprire i costi delle rappresentazioni mediante la sola vendita dei biglietti, il cui prezzo, peraltro, deve tenere conto della necessità di non fare di questi spettacoli un fenomeno per soli ricchi e quindi non devono superare determinati livelli. Ora, uno Stato moderno, il cui compito è evidentemente anche quello di arricchire lo spirito dei cittadini, e soprattutto delle giovani generazioni, dovrebbe bilanciare mezzi e fini suoi propri tenendo conto di ciò che deve essere finanziato e ciò che, invece, potrebbe essere tagliato (mediante, ad esempio, una strenua lotta alla corruzione, ai privilegi della politica, una migliore organizzazione del comparto pubblico, al recupero dell’evasione fiscale, ecc.). esattamente quello che l’attuale governo non fa.

La polemica insensata sulla “cultura che non dà da mangiare” propone argomenti che non tengono conto della razionalità economica. Ci sono alcuni settori della cultura – ad esempio il cinema – che, potendo usufruire, grazie alle innovazioni tecnologiche, di rilevanti aumenti della produttività, forse potrebbe non essere finanziato dallo Stato (un film di successo può arrivare ad incassare anche cento volte il costo complessivo di produzione) e ce ne sono altri, come i siti archeologici ed artistici (si pensi a Pompei, fra gli altri) che potrebbero benissimo sostenersi da soli con la sola vendita dei biglietti ai milioni di persone che li visitano. Naturalmente, però, anche questi hanno bisogno di investimenti (restauro, manutenzione ordinaria e straordinaria, in linea di massima paragonabili ad ammortamenti, cioè investimenti fissi, per quanto “sui generis”), come qualsiasi altra attività economica.

Se l’attuale compagine governativa avesse qualche consapevolezza in più, oltre quelle, assai doviziose, in materia di leggi “ad personam”, potrebbero essere ripristinate politiche culturali economicamente efficienti per un Paese, come il nostro, che ha il più grande patrimonio storico-archeologico del mondo.

Condividi sui social

Articoli correlati

Università

Poesia

Note fuori le righe