Berlusconi-Procure. Quando il “fumus persecutionis” si traduce in impunità permanente (I parte)

I parlamentari e i membri del Governo dovrebbero poter subire il giudizio al pari di qualsiasi cittadino. Ogni forma di protezione e immunità non è altro che l’approntamento di uno scudo immunitario che la Costituzione vigente vieta

La riflessione che è secondo noi necessario fare in questi giorni è se fra magistrati requirenti e governo ci sia uno “scontro politico”. Già, perché molti autorevoli quotidiani e molti autorevoli editorialisti – massimamente nel “Corriere della sera”, tralasciando ovviamente gli house-organ di Arcore, per definizione inattendibili – continuano ad asserire che le Procure starebbero “esorbitando” dalle loro funzioni, provocando, alla fine, una reazione per certi versi giustificata nel ceto politico.

Dove sta lo “scontro”.

Alla fine la contrapposizione o “scontro” fra Procure e governo starebbe nel fatto che alcuni pubblici ministeri indagano e mettono sotto accusa il Presidente del Consiglio, democraticamente eletto dagli italiani, per reati commessi prima e durante l’espletamento del suo alto incarico. Questa è la nozione corrente di “scontro” che pensatori quali Sergio Romano, Pierluigi Battista, Piero Ostellino, Angelo Panebianco sostengono dall’alto delle loro cogitazioni. Anche di fronte a indizi evidenti – come le intercettazioni o come le confessioni di testimoni giudicati poi corrotti e condannati come David Mills – talmente significativi che dovrebbero almeno indurre alla celebrazione di un dibattimento, dove poi appurare la “verità giudiziaria”, questi osservatori indipendenti non retrocedono. Si tratta pur sempre e indubitabilmente di uno “scontro”, dove la magistratura esorbita dai suoi doveri.

La truffa.

Tali conclusioni si basano su un’evidente dato falso: che ogni qualvolta un magistrato indaga un ministro o il premier stesso, invade un potere che non è il suo. Questa asserzione deriva da una premessa logica, che nessuno dei pensatori citati tende ad evidenziare. Se ogni qualvolta un procuratore indaga un uomo politico sconfina dai suoi poteri, allora vuol dire che l’uomo politico non può essere indagato e quindi è immune dalla legge penale. Altre premesse non sono possibili se si vuole rimanere sul piano della razionalità giuridica.

Il principio di uguaglianza.

Nella sua secchezza propositiva, l’articolo 3 della Costituzione indica una strada senza pregiudiziali: tutti sono uguali di fronte alla legge, senza alcuna distinzione (razza, opinioni politiche, sesso, condizioni sociali), quindi nessuno, per principio, è “immune” dalla legge penale e civile. A questo principio, però, il Costituente aggiunse una limitazione, derivante dalla storia del parlamentarismo, soprattutto agli albori della contrapposizione fra Assemblee e Monarchia nell’Inghilterra del XVII secolo: quella delle tutele parlamentari. Esse erano previste per impedire che i monarchi eliminassero per via giudiziaria (con magistrati funzionari del re) gli oppositori scomodi.

Il cosiddetto “fumus persecutionis”

I legislatori successivi non pensarono però ad un’immunità totale ma subordinata al cosiddetto “fumus persecutionis”. La protezione allora si risolse nel concetto di “autodichìa” dei Parlamenti: per inquisire un membro di Assemblee elettive è necessario un giudizio preliminare dei suoi pari, che deve appurare l’esistenza o meno di una “persecuzione” di tipo politico. È esattamente quanto scaturì dal vecchio articolo 68 della Costituzione – poi modificato, sull’onda di tangentopoli, nel 1993 – e dalla prassi applicativa delle Giunte per l’autorizzazione a procedere delle Assemblee. Quella del Senato, nel lontano 1988, precisò in termini molto netti il concetto di “fumus persecutionis” al quale si riteneva necessario adeguare il “giudizio” di infondatezza su un procedimento avviato da un magistrato contro un parlamentare: “con l’espressione s’intende (…) persecutoria l’azione penale che, per il tempo e le modalità del suo esercizio ovvero per la sua manifesta infondatezza, pur diretta nei confronti del singolo parlamentare, costituisca un vulnus per l’istituzione parlamentare”.

L’impunità permanente

Il berlusconismo ha naturalmente sollevato nuovamente il problema, nei termini rozzi tipici dei suoi principali esponenti e del suo “dominus”. Derivando i principali temi dal craxismo, di cui è il più fedele erede, pretende di ripristinare per intero la norma costituzionale, che ora si limita a impedire gli arresti, le perquisizioni e le intercettazioni dei parlamentari ma non più l’avvio di un procedimento (cioè di un’indagine). Ed è così che ad alcuni suoi membri (ma non mancano, bisogna sottolinearlo, anche se in numero molto più ridotto, anche esponenti del centro-sinistra) è negato l’arresto anche in presenza di quelle condizioni previste dalla legge per la custodia cautelare (pericolosità sociale, reiterazione del reato, inquinamento delle prove, fuga). In questo modo si concretizza uno strumento di discriminazione sociale legale fra i membri di quella che oramai viene vista come una “casta” e il cittadino comune. Ci sono stati casi di esponenti del Pdl, accusati di appropriazione indebita e corruzione (ad esempio nel famoso caso di “Lady Asl” a Roma, che passava stipendi mensili a assessori regionali in cambio di appalti) che non sono stati arrestati perché oramai entrati a far parte di una Camera, quando invece un semplice cittadino lo sarebbe stato. Addirittura il berlusconismo non si è peritato di nominare ministri fittizi (Aldo Brancher), già rinviati a giudizio, per sfruttare le norme del legittimo impedimento, in casi in cui lo stesso nominato (poi dimissionato) ha patteggiato una pena detentiva per un reato che, stando al giudizio di primo grado, aveva commesso (I-continua).

Leggi la seconda parte dell’articolo

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