Frenata del Dragone e crisi degli emergenti: cosa farà la BCE?

TRIESTE – L’andamento dei listini nella scorsa settimana è stato caratterizzato da un deciso cambio d’umore degli investitori, innervositi dalla decisione della Fed di continuare con il “tapering”, la progressiva riduzione del programma di acquisto di titoli di Stato: il mercato si sta ora interrogando sulla reale debolezza delle economie che dovrebbero tirare la ripresa, stante le rinnovate tensioni cui sono state sottoposte le valute emergenti.

Questa condizione psicologica rispetto agli imminenti sviluppi del contesto economico è alla base della grande incertezza che ha pervaso Piazza Affari nella scorsa ottava, rispecchiata dal minimo progresso (+0,31%) fatto registrare dal FTSE Mib, il principale indice azionario di Borsa Italiana, la cui crescita da inizio anno corrisponde ad un eloquente +2,38%. 

Con simili premesse appare quasi scontato indicare nelle riunioni della Bank of England (BoE) e della BCE (Banca Centrale Europea) in agenda per giovedì prossimo gli appuntamenti centrali della settimana borsistica entrante, cariche di aspettative riguardo l’adozione di ulteriori misure di stimolo alla crescita ed all’economia reale dopo che gli indicatori economici provenienti dalla Cina hanno continuato a mostrare un rallentamento della crescita del gigante asiatico, una frenata che si riverbera sulla ripresa della congiuntura globale e di quella dei Paesi asiatici.

L’indice PMI (Purchasing Managers Index) della CFLP (China Federation of Logistics and Purchasing) che si concentra sulle grandi fabbriche del settore manifatturiero cinese è sceso, rispetto a dicembre, al più basso livello degli ultimi sei mesi, 50,5 punti che però indicano ancora una fase di crescita economica, mentre al contrario già giovedì scorso HSBC aveva comunicato che, in base alle proprie rilevazioni tarate soprattutto sull’attività delle imprese di piccole e medie dimensioni, l’indice PMI dell’ex Celeste Impero era sceso in territorio negativo a 49,5 punti.

La fine del denaro facile annunciata dalla Fed ha creato un tumulto che ha prosciugato i listini dei Paesi emergenti di circa  12,2 miliardi di dollari a ritmi che non si vedevano dal 2011: la progressiva diminuzione della liquidità reperibile sui mercati preoccupa gli investitori, che ora prudentemente preferiscono ridurre l’esposizione verso quei Paesi che fino a ieri garantivano loro i rendimenti maggiori, sebbene associati ad una più elevata dose di rischio.

L’attuale crisi di quei paesi che fino a poco tempo fa erano definiti le locomotive dello sviluppo mondiale fortunatamente non ha nulla a che fare con gli amari ricordi della crisi asiatica del 1998: grazie alle odierne politiche monetarie accomodanti ed alla libera fluttuazione delle valute, praticamente ogni paese fa storia a sé, senza motivo per parlare di contagio.

Per quanto riguarda gli aggiornamenti sul fronte macroeconomico, apertura di ottava dominata dalla comunicazione dei dati relativi al comparto manifatturiero:  a gennaio l’indice PMI manifatturiero dell’Italia è stato di poco inferiore alle stime degli analisti, attestando per il settimo mese di fila la fase di espansione dell’attività (53,1 punti); confermata una crescita superiore alle attese anche per la Germania (56,5 punti) e per il dato europeo, salito a 54 punti rispetto ai 52,7 del mese precedente, mentre la Francia, pur in incremento rispetto alla precedente rilevazione, resta ancora in fase di contrazione.

Lunedì che si apre con una nuova seduta negativa per i mercati asiatici, dove il paese del Dragone tiene banco nonostante la chiusura delle Borse cinesi per le festività legate al Capodanno: il rallentamento del comparto manifatturiero ed i deludenti dati relativi alle esportazioni ed al mercato del lavoro non lasciano ben sperare sul ritmo di crescita del colosso asiatico, innescando le vendite. A Tokyo (-1,98%) l’indice Nikkei ha chiuso in forte ribasso (da inizio hanno ha perso circa il 10%) a causa dell’ulteriore rafforzamento dello yen, il cui rimbalzo si è negativamente ripercosso sugli utili delle società esposte al mercato americano.

Le preoccupazioni per la Cina e per la crescita delle regioni in via di sviluppo sono la causa del debole avvio dei listini del Vecchio Continente, che a metà seduta si trovano ancora sotto al segno meno: a  condizionare la giornata i pessimi risultati del comparto finanziario dopo i conti deludenti di Lloyds e Julius Baer, mentre sullo sfondo aleggiano ancora le preoccupazioni legate alla crisi in Argentina. Nonostante l’attesa di una  correzione dopo le corse registrate nel 2013, preoccupano le incertezze patrimoniali degli istituti di credito europei in vista dell’asset quality review della BCE, con il timore degli operatori rivolto ad un generalizzato ricorso agli aumenti di capitale: si spiega così la brusca frenata di tutte le principali Borse europee dopo il deficit trimestrale UE, con Madrid (-1,96%) a guidare la lunga catena di ribassi che hanno interessato anche Parigi (-1,39%), Francoforte (-1,29%) e Londra (-0,695).  

Pessimo avvio di settimana anche per Piazza Affari (FTSE Mib -2,63%, FTSE Italia All Share -2,48%), maglia nera d’Europa sulla quale ha pesato il pessimo dato sul manifatturiero statunitense, risultato decisamente peggiore delle attese. A Milano ne ha fatto le spese il comparto finanziario, banche popolari in particolare, per le quali ci sono preoccupazioni legate agli aumenti di capitale in vista dei prossimi test di solidità decisi a livello europeo. Sono tornate così le vendite su Banco Popolare (-6,99%) nonostante il miglioramento del rating effettuato da Moody’s, portato da “negative” a “positive” in seguito alle misure adottate dalla banca per rafforzare il patrimonio; Deutsche Bank ha invece alzato la valutazione su Credem (-6,83%), ribadendo l’indicazione di mantenere le azioni, nonché su UBI Banca (-5,08%), in conseguenza del miglioramento delle stime sull’utile per azione; in rosso Monte dei Paschi di Siena (-2,01%) sui rumors di due cordate in gara per rilevare la quota dell’istituto detenuta dalla Fondazione MPS, seguito da Intesa Sanpaolo (-2,89%) che, secondo il Financial Times, starebbe creando una “bad bank” in cui far confluire buona parte dei crediti incagliati e deteriorati, progetto che dovrebbe essere contenuto nel nuovo piano industriale. Giornata da dimenticare anche per Unicredit (-3,94%),  Popolare di Milano (-4,3%) e Popolare Emilia Romagna (-6,91%).

Prese di profitto sui titoli del settore del lusso dopo le ottime performance messe a segno la scorsa settimana, con Salvatore Ferragamo a scendere del 3,87%, Tod’s del 3,26% e Luxottica dell’1,01%.

Tra i titoli a maggior capitalizzazione ulteriore ribasso per Telecom Italia (-3,03%) anche se Marco Fossati, azionista di peso con il 5% del capitale, scommette sul raddoppio del valore  qualora l’azienda riuscisse a ridurre l’indebitamento ed a migliorare l’efficienza, ribadendo la strategicità della controllata sudamericana di TIM Brasil, che sta registrando elevati tassi di crescita.

Gli analisti di Mediobanca hanno poi rivisto il giudizio su Generali (-2,49%) portandolo da “Neutrale” ad “Underperform” (farà peggio del mercato) in seguito alla riduzione delle stime sull’utile per azione per il triennio 2013/2015; calo per Fiat Chrysler (-3,52%) sul dato sulle immatricolazioni a gennaio comunicato dal Ministero dei Trasporti italiano.

Sul fronte del debito sovrano, il differenziale di rendimento tra il Btp decennale ed il Bund tedesco di pari scadenza ha chiuso in lieve rialzo a 213 Bp (Basis point, punti base), con il tasso sul decennale del Tesoro sceso al 3,77%. 

Lo spread tra titoli decennali spagnoli e tedeschi ha chiuso invece a 210 Bp, con il Bonos che paga un rendimento del 3,74%.

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