Omicidi. Quale movente? Futili motivi

ROMA – Nel corso di una settimana, in Italia, sono morte ben otto persone assassinate per ‘futili motivi’, questa è la formula usata dagli inquirenti per definire un movente insignificante da sembrare senza senso.

È chiaro che la formula investigativa non chiarisce le motivazioni e le intenzionalità inconsce che portano un essere umano, che si potrebbe definire ‘normale’, o che fino a quel  momento è apparso tale, a compiere un delitto d’impulso per una  piccola spinta, come è successo a Grottaferrata e a Ferrara, o per il possesso di un parcheggio come è successo a Cosenza. Non ci basta neppure conoscere il movente apparentemente razionale che spinge a sopprimere toglier la vita ad un essere umano, per ragioni che sono incongrue in una società civile, come uccidere a coltellate un ventenne perché appartenente ad una banda metropolitana diversa, come è successo a Cinisello Balsamo, oppure ammazzare due uomini per motivi legati ad un debito come è accaduto a Crotone.
Mentre scriviamo queste cose ci sembra impossibile che si possa fare un elenco tanto lungo di uccisioni scaturite da situazioni, verrebbe da dire improbabili, o ingiustificabili razionalmente, come tenta di fare, quantomeno nel titolo, Giuliano Aluffi, sulle pagine de Il Venerdì di Repubblica.
Per cercare di capire meglio cosa in realtà accade in queste ‘cronache del sottosuolo’, proviamo a fare qualche domanda alla dottoressa Gabriella Terenzi, Psicologa e Psicoterapeuta, che svolge il suo lavoro presso la  AUSL di Roma.

Parliamo prima di quegli omicidi, che si potrebbero definire d’impulso, come il caso di un barista di Ferrara che ha ucciso a pugni un uomo solo perché aveva urtato la sua fidanzata, o il caso di quel ventiduenne ucciso a coltellate in una rissa provocata da una spinta casuale.  Perché tanta violenza fisica, e cosa c’è sotto tutto ciò? Chi uccide un essere umano deve essere in precedenza uscito dall’idea del riconoscimento dell’altro da sé come un uguale a sé stesso? E se la vittima non è più percepito come un uguale come viene ‘visto’ dall’aggressore?

Ogni caso andrebbe analizzato con più elementi ma, da quello che si evince dalla cronaca, ognuno di questi fatti ha un comune denominatore: un’assoluta carenza di rapporto con la realtà e specificatamente con la realtà umana. L’altro ha violato (più o meno volontariamente), l’intoccabilità del proprio territorio. La violazione è giudicata imperdonabile e presa a pretesto per attivare, con modalità pulsionali, l’azione violenta e omicida. L’invasione del nostro alone d’intoccabilità è più importante della vita  dell’altro.

Nel caso invece di delitti per rubare poche cose o per fatti di piccola criminalità legata al controllo del territorio urbano, cioè in quei casi dove la soppressione dell’altro non può essere neppure legata a veri e propri moventi utilitaristici?

Ci riferiamo per questo ad una patologia che riguarda la perdita di senso. L’oggetto da possedere, il piccolo vantaggio materiale, conta più della vita di un uomo percepito come ‘cosa’ di non valore. Togliere l’umano che c’è nell’altro è una patologia caratterizzata dalla perdita della propria dimensione umana. Ancora oggi ci possiamo riferire a Dostoevkij in “Delitto e castigo”, il quale attraverso la figura di Raskolnikov descrive con chiarezza queste dinamiche. Nel Corso di Psicologia dinamica, presso l’Università di Chieti, lo psichiatra Massimo Fagioli ha più volte messo in evidenza la differenza che sussiste tra il delinquente ed il mafioso, i quali uccidono per una rapina o per un disegno criminale, ed il pazzo, che uccide senza motivo.

Secondo lei queste persone che uccidono in questo modo, e con questa violenza, lo fanno anche per cause che si possono definire sociali o l’uccisione dell’altro da sé deve avere delle motivazioni  psicologiche più personali molto più profonde da ricercare, forse, nelle prime esperienze di vita?

Le prime esperienze di vita sono fondamentali nella formazione della personalità di ciascuno di noi. Alla nascita i bambini sono sani ma, se le prime esperienze di rapporto sono troppo violente e deludenti, il sano sviluppo si può compromettere. Certamente situazioni di emarginazione sociale e carenze affettive legate a condizioni di vita particolarmente dure, non aiutano a colmare eventuali fragilità e alterazioni dello sviluppo personale.
La cultura dell’apparire, l’assenza di una personale ricerca sull’essere, la cecità, come direbbe Saramago, su una possibile convivenza non violenta tra esseri umani, strutturano in modo definitivo, tali carenze.

Giuliano Aluffi sulle pagine di Il Venerdì di Repubblica di questa settimana, rispolverando un ammuffito Lombroso, fa affermazioni che ci sembrano, per usare un eufemismo, un tantino superficiali. In sintesi egli parla di “aree cerebrali predisposte all’autocontrollo” e di come eminenti neurologhi e genetisti italiani siano riusciti a dimostrare, ad una corte, la non responsabilità di un imputato per omicidio, dimostrando che “ i geni dei trasmettitori cerebrali dell’imputato suggerivano impulsività”. Inoltra egli fa, parzialmente, sua una di distinzione tra ‘mad or bad’, vale a dire tra  ‘malato e cattivo’ . Come viene sottolineato nell’articolo da Giuseppe Sartori: “Per le neuroscienze ogni nostro pensiero discenderebbe esclusivamente da reazioni chimiche che avvengono a nostra insaputa dal nostro cervello.”
Due domande: vi è una differenza, secondo lei, tra cattivo e matto, nell’azione omicida? Non le sembra che questo rispolvero del cadavere malconcio di Lombroso e delle neuroscienze che spiegherebbero i movimenti inconsci e le conseguenti azioni degli esseri umani, sia una cortina fumogena per coprire verità scomode come il fallimento di una parte del pensiero scientifico incapace di andare a vedere le vere dinamiche psichiche che portano all’annullamento, prima, e poi all’uccisione di un essere umano?

Nelle neuroscienze si scambia la causa con l’effetto per cui, quando si trovano alterazioni nelle scansioni della zona frontale del cervello (definita dell’autocontrollo) di un cocainomane, non si ipotizza che siano la conseguenza dell’uso di droghe e non la causa dei pensieri e del comportamento alterati. Nello stesso modo, quando si rileva una riduzione dei neurotrasmettitori di schizofrenici cronici e la si interpreta come causa della malattia e non conseguenza dell’impoverimento ideativo e affettivo.
In questo articolo Giuseppe Sartori, docente di neuroscienze cognitive dell’Università di Padova, si chiede giustamente dove andrebbe a finire il libero arbitrio (caratteristica degli essere umani) se fosse vero, come affermano le neuroscienze, che ogni pensiero e azione dipendono da reazioni chimiche pre-determinate.
Sensatamente Giuliano Aluffi conclude l’articolo dicendo: “siamo uomini e non solo lampi di elettricità chimica che viaggiano nel silenzio del cervello. Checchè ne dica la tac.”
Lo psichiatra Massimo Fagioli nel suo trattato sulla “Teoria della nascita e castrazione umana” e nella rivista di psichiatria e psicoterapia “Il sogno della farfalla”, (L’Asino d’oro Editore, n.1 del 2010), è ben illustrato come la pulsione di annullamento che fa sparire l’altro essere umano, sia il meccanismo patologico alla base di molti gesti, presunti imprevedibili, di pazzia. In contrapposizione è descritto come la fantasia di sparizione rispetto a proprie dimensioni interiori, sia la base della possibilità di trasformazione di dimensioni malate. In termini scientifici, in opposizione alla patologia “la trasformazione è l’emergenza del pensiero dalla realtà biologica che, nell’invisibile, la fa diversa da quella del feto e, straordinario e perturbante, resta se stessa”, cfr. Left n.2 del 14/1/2011, Aut. cit.
E’ assolutamente ovvio che senza teoria, propugnare la necessità di indagare tramite accertamento radiografico, nasconde un’assenza di pensiero sulla realtà psichica umana.

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