È morto sulla strada, al Pireo, come un pedone qualsiasi. Theo Angelopoulos, uno dei più grandi registi europei del Novecento ha lasciato in questo modo il nostro mondo, improvvisamente, senza darci il tempo di abituarci alla sua assenza. Per chi appartiene alla generazione dei cinquantenni, Anghelopoulos ha avuto una doppia valenza: quello di un maestro di stile cinematografico e quella di un interprete rivoluzionario della storia politica.
Sul primo versante, Theo è stato un grandissimo innovatore, nell’epoca in cui la televisione, lentamente ma inesorabilmente, stava modificando geneticamente il nostro modo di guardare un film. Infatti, mentre la coscienza visiva del XXI secolo si indirizzava verso la sintesi e la sincope, lui attingeva alla lentezza e all’analisi. I suoi famosissimi piani-sequenza (una scena girata senza stacchi, quindi senza la mediazione del montaggio) erano viaggi nel tempo politico, come nel celeberrimo “O Thiasos” (“La recita”), una delle sue opere epiche, che racconta il trapasso della storia greca del Novecento dal mito alla realtà fascista, dove proprio il piano-sequenza viene utilizzato per unire materialmente spezzoni della memoria.
Sul secondo versante, il grande regista greco ci ha spiegato come la storia non passi interamente sulle spalle del popolo, di quei “vinti” raccontati da scrittori come Giovanni Verga, ma che, al contrario, le masse possono irrompere sul palcoscenico e riscrivere un copione interamente, da cima a fondo.
Negli ultimi anni il suo cinema era diventato più nebuloso, andando a scandagliare non più la memoria collettiva ma quella personale, anche se, come lui stesso ha sempre dichiarato (“Tutto quello che ho imparato, o che mi è successo di magico, di insolito, o legato alla mia vita personale o lavorativa, è avvenuto nell’arco di qualche viaggio”), la macchina da presa era per lui lo strumento per costruire una geografia dell’anima, con quella stessa sete di conoscenza dell’eroe omerico, quell’Ulisse in cui lui più volte si riconobbe nel costruire un racconto.
Nell’era televisiva, il suo cinema è improponibile. Si pensi ad un suo qualsiasi film interrotto dai lacerti pubblicitari, il ritmo musicale delle sue scene deturpato come un colore spruzzato su una tela di Raffaello. Per questo, la sua morte lo rende angelico. Un angelo che ha rischiarato la nostra conoscenza.