Lungimiranti, non profetici

ROMA – Due anni fa, più o meno, e per vari mesi, siamo stati tutti investiti da un tormentone senza fine, inerente la prospettiva politica a medio termine. “Il PD di Bersani deve decidere quale alleanza intenda privilegiare: a sinistra con Vendola o al centro con Casini; diversamente il partito verrà percepito come incerto e privo di strategia.”

Così veniva ripetuto da più parti; con compiaciuta malizia da parte di taluni, o con piglio  provocatorio, comunque con il tono di chi mette il dito nella piaga. Il non detto era: non avete il coraggio né la determinazione politica per decidere, una segreteria debole si rifugia in una opportunistica ambiguità; così non si va da nessuna parte.
Quanti autorevoli editoriali, quanti strateghi ispirati!
Gli avversari politici enfatizzavano ciò, il centro-destra cercava così di deviare l’attenzione dalla crisi profonda del berlusconismo.
Per non breve tempo, questa dialettica ha ipotecato anche il dibattito interno al PD e comunque ha creato incertezza nella opinione pubblica di orientamento progressista. Parte significativa dello stesso gruppo dirigente del PD non si è sottratta alla tentazione di segnalare la propria adesione all’una o all’altra opzione, come si trattasse di strategie diverse, inesorabilmente non conciliabili.  
Con più di qualche scetticismo veniva accolta la considerazione, tenacemente sempre  ribadita da Bersani, secondo cui il PD doveva proporsi un percorso così scandito: definizione di un quadro di valori che tracciasse l’identità di una rinnovata sinistra di governo e ne coalizzasse la forza, elaborazione condivisa di un programma per governare, scelta partecipata del candidato premier (le primarie di coalizione), proposta di alleanza avanzata alle forze limpidamente costituzionali ed europeiste dell’area centrista disponibili ad un impegno di alternativa alla destra.

Fosse solo per tirare le (prime) somme di quella discussione ci si potrebbe fermare qui, semplicemente sollecitando ciascuno a trarre da sé il bilancio oggi, alla luce del consolidarsi dell’alleanza del PD con SEL, dopo le recenti prese di posizione (non casuali) di una parte fondamentale dei centristi, dopo le scelte di campo di altre rilevanti personalità della sinistra, “indipendenti” dal PD (penso a Diliberto, Salvi, Patta…). Alla luce anche dello sbandamento che sta squassando formazioni sedicenti “di sinistra” come l’IDV.

Ma vale la pena trarre da questa vicenda anche considerazioni di valore più generale, rivolte al futuro. La dialettica politica sarà sempre più imperniata attorno al confronto fra progetti di governo della società, fra loro alternativi; e sarà inevitabilmente interpretata da coalizioni necessariamente ampie e auspicabilmente coese. In fondo già è così e ne abbiamo esperienza diretta, dal primo governo Prodi in poi. Ciò, di per sé, non nega il pluralismo delle culture politiche e quindi delle appartenenze associative (i partiti), tuttavia anche le identità collettive non possono prescindere dalla finalità ultima, che non può che essere il governo della società.
Valori identitari, programmi di governo, alleanze possibili; nel circuito fra queste tre polarità si gioca la partita della politica. Le stesse architetture istituzionali possono assecondare o complicare queste dinamiche, ma non cambiarne il corso. Neppure una eventuale futura legge elettorale più marcatamente proporzionalistica  (da taluni auspicata, non senza ragioni) muterebbe sostanzialmente le cose.
Dunque perché mai il PD, oggettivamente il partito principale per ogni possibile progetto di governo progressista per la società italiana, avrebbe dovuto o potuto determinare in sé, “ab origine” il limite ultimo del suo campo di azione? In quale altro modo avrebbe potuto proporsi se non coalizzando quanto più possibile la sinistra e offrendo, su quella base, la possibilità di una alleanza programmatica a forze “intermedie” che si rendessero disponibili? L’unica alternativa a questo modo di definirsi e di porsi sarebbe stata, in ogni caso, la chiusura in un fortino identitario. E Bersani, a quel punto, epigono di Ferrero, o di Casini (ma per questo c’è già Renzi che, non a caso, sul tema delle alleanze continua a sparacchiare qualunque ipotesi e il suo contrario).  
Una ulteriore considerazione rivolta al futuro: i processi di integrazione europea -in ambito economico, sociale, istituzionale- provocheranno una progressiva integrazione anche del sistema politico; saremo tutti, sempre più, “cittadini di Europa” anche nella scelta delle appartenenze politiche ed elettorali. Per capirlo non serve il dono della profezia, basta essere un poco lungimiranti; e tener d’occhio come funzionino le cose in Germania, in Francia, in Spagna…

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