Santoro da Berlusconi. Il palcoscenico c’è, ma ogni comico richiede la spalla

ROMA – Un tavolino di legno e due sedie, una fiaschetta impagliata di Chianti e un Alighiero Noschese truccato da un Berlusconi un po’ brillo che ogni tanto batte sulla spalla per assecondare il suo interlocutore strappandogli  qualche sana risata. Insomma un faccia a faccia in piena regola.

Questo era il modo giusto per accogliere Silvio Berlusconi a Servizio Pubblico. La scenografia si sarebbe rivelata azzeccatissima, degna del teatro avanguardistico spinto agli estremi, ma non per questo meno  autentico delle maschere che ognuno indossa faticosamente nella vita reale.
Le domande, anche quelle più intelligenti e studiate, che hanno di fatto inchiodato il Cavaliere alle sue responsabilità, si sono disperse nei meandri oscuri dello studio 5 di Cinecittà.  Santoro e company devono averla presa troppo sul serio questa puntata. O forse non volevano crederci che dopo tutti questi anni passati, editto bulgaro compreso, fosse arrivato il momento dell’incontro ravvicinato, anzi rivelatore. Berlusconi era proprio lì, vicino a loro, in carne ed ossa, pronto a rispondere a una pioggia martellante di domande sul come, quando e perchè. Mica hanno pensato che il Cavaliere non avrebbe potuto raccontare a modo suo tutto e il contrario di tutto? Chissà, forse a un certo punto hanno pensato che avrebbe potuto addirittura sfilare la stretta pancera e fare la danza del ventre sopra il tavolino.

Peccato. Se Santoro & C. avessero trovato la chiave giusta per aprire il portone del teatro, si sarebbe spalancato un altro mondo, avrebbero potuto comunicare tutti sullo stesso piano e anche noi ci saremmo goduti uno spettacolo più avvincente, perchè quando la comicità e la risata si fondono all’unisono, spesso succede di sconfinare nel mondo del reale senza rendersene conto. Insomma qualche barlume di verità sarebbe emersa, almeno per rimanere impressa a quelli che il prossimo 24 e il 25 febbraio dovranno mettere una croce su un foglio e non perchè non sono capaci di scrivere il loro nome.
Una prova l’abbiamo però acquisita, a conferma del nostro pensiero.  Anzi due. La prima è che i comici in Italia non sono uno, bensì due. Entrambi fanno spettacoli, anche se in sedi separate perchè non sono affatto amici, non si parlano neppure, ma richiamano sempre un po’ di persone quando si esibiscono. O almeno questo è il loro principale obiettivo.
E soprattutto quando sono nella giornata buona ti fanno scompisciare dalle risate. Quasi da non crederci, quando mettono in moto l’arte illusoria che confonde il possibile dall’impossibile, il reale dall’irreale, la bugia dalla verità.
Basta saperli ascoltare con disincanto, senza dubbi precostituiti. E’ sufficiente annullare completamente la parte razionale che vive in ognuno di noi e accettare quanto offrono alla platea, perchè è la vita da palcoscenico che impone pur sempre un copione da seguire che ha i suoi vantaggi.
La seconda cosa è la conseguenza finale. Ovvero, se siamo ridotti ad assistere ad una comicità che non ride più  significa che abbiamo perso completamente il senso delle cose che ci circondano. La bussola non segna più il nord magnetico e diventa difficilissimo orientarsi davanti al teatro dell’assurdo. E così  il sipario tristemente si chiude. Le luci si abbassano e il commediante nella penombra abbandona il palcoscenico, lasciando in eredità  l’ultima frase: “Ragazzi, non fatevi infinocchiare”. Peccato la spalla del comico non ci sia. Solo lui avrebbe potuto rispondere.

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