Diritto e rovescio della contemporaneità in tre minitappe

ROMA – La prima: partecipo alla presentazione di un libro su Dossetti. E ci trovo il professor Pietro Rescigno, mitico per noi che abbiamo studiato legge tantissimi anni fa, autore di testi importanti come le pietre miliari prima dei localizzatori satellitari. Un uomo che parla della nostra Costituzione con lo stesso affetto con cui noi potremmo parlare di una persona cara.

E con la stessa competenza di un tecnico altamente specializzato. E con la chiarezza di chi ha le idee molto chiare. E con la laicità di un vero laico (a prescindere dalla sua religiosità che qui non è in discussione). E di Dossetti – un indignato ante litteram che nel ’94 uscì dal convento dove si era ritirato per difendere la costituzione che gli pareva sotto attacco – come uno che lo ha conosciuto, senza miti e senza esagerazioni. Starei ad ascoltarlo per ore.
La seconda: guardo in tv i funerali di Franca Rame. Dario Fo parla della genesi. E per commemorare la moglie, l’amica, la coautrice, la compagna di tante battaglie, tira fuori un testo sulla grande scelta primaria dell’umanità: l’amore anche a prezzo di rinunciare all’eternità. Come orazione funebre davvero insolita.
In tutti e due i casi – Rescigno e Fo – mi sono commossa. Penso allo spreco di intelligenze, di opportunità, di giovani talenti. Penso a due persone in età, ciascuna geniale a suo modo, che potrebbero – e come – dare tantissimo ai giovani, se solo fossero inseriti in un sistema che valorizza le intelligenze e non si limita a chiamare in tv la gente sulla base della tintura dei capelli o della bravura del chirurgo plastico o della capacità di dire qualcosa in trenta secondi. Se la cultura avesse un ruolo primario. Se i giovani fossero educati alla conoscenza, al bello, all’arte, al teatro. Se la crisi non fosse solo un’occasione per ristrutturare un’economia già fin troppo nelle mani della finanza. Se l’università fosse anche sede di trasmissione di conoscenza fra le generazioni e non un esamificio. E qui veniamo alla terza tappa: l’università di Milano che voleva tenere lezione esclusivamente in inglese. Si, lo so, la globalizzazione come la religione dei bei tempi antichi, richiede i suoi sacrifici di sangue. Ma in questo caso il sangue è il nostro, è il ruolo della nostra lingua come lingua viva e non come lingua morta, da parlare un po’ alla volta solo nei salotti e via via abbandonarla in favore dell’inglese nella vita di ogni giorno. Tuteliamo il ladino, le minoranze linguistiche più sparute. E dell’italiano cosa vogliamo farne? Cosa impedisce ai nostri giovani più colti di essere almeno bilingui? Colti ho detto e non eruditi. Colti cioè ricchi di quel sapere che si stratifica nei secoli anche come cemento di un sentire comune. Come cemento di una comunità. Cioè, se non mi sbaglio, quel cemento che grattato via da mille scandali, mille sopraffazioni e inefficienze, ha fatto degradare il nostro sentirci parte di una collettività unica e unita.
Daniela Brancati

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