Siamo sicuri che l’America sia salva?

ROMA – Nonostante la sconsiderata irresponsabilità dei fondamentalisti del Tea Party, era davvero difficile immaginare che, alla fine, democratici e repubblicani non sarebbero riusciti a trovare un accordo in grado di porre termine allo “shutdown”, far ripartire il Paese e innalzare il tetto di un debito pubblico che ha raggiunto oramai proporzioni mostruose.

Pur avendo vissuto le ultime due settimane col fiato sospeso, possiamo dire ora che l’esito della vicenda era abbastanza scontato. A tenere le redini della politica americana, infatti, soprattutto nel campo repubblicano, sono quelle lobbies e quei magnati di Wall Street che tutto possono permettersi, specie in una fase di crisi così acuta, tranne che un eventuale default della prima economia del pianeta.

Per questo, a dispetto dei proclami bellicosi e del ghigno malefico dei pasdaran pronti a mettere in ginocchio l’intero Occidente pur di smantellare la riforma sanitaria varata da Obama, eravamo alquanto fiduciosi sul buon esito delle trattative, alla luce anche del noto pragmatismo proprio della politica americana e delle indubbie qualità di mediazione di un presidente dai tratti piuttosto centristi.

 

Obama  ha ben poco da festeggiare

Peccato, però, che, come ha scritto Rampini, pur uscendo rafforzato dalla contesa, Obama abbia ben poco da festeggiare. La sua scommessa, difatti, guarda soprattutto alle elezioni di mid-term del prossimo anno, nella speranza di riconquistare entrambi i rami del Parlamento e navigare in acque meno agitate in vista della fase conclusiva del mandato. Essendo notoriamente un calcolatore e conoscendo le sue doti di politico accorto, senz’altro si sarà fatto bene i conti prima di mettere a punto una strategia tanto rischiosa quanto affidata a un fattore notoriamente mutevole quale l’umore dell’opinione pubblica che attualmente è indignata con i repubblicani per i rischi cui hanno esposto il Paese ma che tra un anno potrebbe essersi dimenticata di tutto.

Da questo punto di vista, Obama commetterebbe un errore cruciale se pensasse che, superato lo scoglio di questa battaglia ideologica, l’America sia finalmente al sicuro perché non è affatto così. L’accordo raggiunto in extremis con i repubblicani prevede, infatti, il prolungamento del bilancio federale fino al prossimo 15 gennaio e l’innalzamento del tetto del debito pubblico fino al prossimo 7 febbraio; dopodiché, in piena campagna elettorale, o le parti riusciranno a sedersi nuovamente intorno al tavolo o saremo punto e a capo, col Paese nuovamente paralizzato, le borse mondiali in crollo, le inevitabili ripercussioni sulla fragilissima ripresa europea e lo spettro del ritorno di una recessione che vanificherebbe in pochi giorni gli immani sforzi compiuti da milioni di cittadini in questi anni.

 

La deriva estrema di un capitalismo ormai fallito

Perché il punto, come hanno sottolineato alcuni tra i più illustri analisti e commentatori, non è solo l’andamento economico e le decisioni di spesa e d’investimento della Nazione; il punto è più che mai politico e riguarda la deriva estrema e devastante di un sistema oramai fallito (il capitalismo come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi) e di un’ideologia (il liberismo selvaggio propugnato dal duo Reagan-Thatcher) che ha creato ovunque soltanto miseria, declino e povertà.

Il problema, come ha ben spiegato il politologo americano Bill Schneider, è che oramai anche l’America è diventata tripolare, con una sinistra, una destra e un insieme di populisti, i Tea Party per l’appunto, che hanno come unico programma politico la distruzione dello stato e di tutto ciò che esso rappresenta.

Per questo, non siamo affatto convinti che l’America sia al riparo da nuove crisi: perché Obama può mediare e impegnarsi quanto vuole, ma qui il problema è di mentalità e l’azione da compiere richiede come minimo un decennio, cioè lo stesso lasso di tempo impiegato dai fautori del liberismo sfrenato per convincere l’opinione pubblica mondiale che “lo stato non è la soluzione ma il problema”.

Glòi appetiti famelici di multinazionali, lobbies e poteri forti

Il guaio è che l’edonismo anti-sociale di Reagan ha generato un mostro di dimensioni tali che oramai nessun governo, nemmeno quello degli Stati Uniti, è più in grado di arginare gli appetiti famelici di multinazionali, lobbies, poteri forti, poteri occulti e squali di varie dimensioni che, grazie a questo devastante sistema economico e sociale, si sono arricchiti a dismisura, a scapito della povera gente, fomentando guerre tra miserabili e soffiando sul fuoco dell’invidia e dell’odio sociale al fine di convincere chi è costretto a vivere nell’indigenza più assoluta, senza alcuna tutela, diritto o garanzia, che la colpa della propria condizione non sia di chi si è arricchito vergognosamente alle spalle dell’umanità ma dei cosiddetti “garantiti”, cioè di coloro che hanno avuto l’unica fortuna di iniziare a lavorare prima che queste insulse teorie si diffondessero in ogni angolo del globo.

 

Regole stringenti per chi specula sul dolore

In conclusione, né l’America né nessun altro stato sarà salvo fino a quando la politica non avrà riacquistato il pieno controllo sulla finanza e posto dei limiti e delle regole stringenti a chi specula sul dolore e sulle necessità altrui. L’esistenza e il radicamento del Tea Party, tuttavia, ci dicono che sarà una battaglia lunga e senza esclusione di colpi, anche perché i primi nemici da sconfiggere saranno quei luoghi comuni, quelle frasi fatte e quei sentimenti di repulsione nei confronti della politica che i manovratori nascosti di interessi miliardari hanno sapientemente disseminato ovunque per trasformare un’umanità libera in un popolo di schiavi, intrisi di livore e risentimento e convinti che non esistano alternative a un tenore di vita oggettivamente intollerabile.

Condividi sui social

Articoli correlati