Università, per quelle italiane non c’è posto nelle classifiche internazionali ed europee

ROMA – Nulla di nuovo sotto il sole per l’università italiana. Nei giorni scorsi è stato pubblicato il World University Ranking 2013-2014 e, tanto per cambiare, tra le prime 100 università del mondo non ne compare nemmeno una italiana. Le cervellotiche riforme operate sul sistema universitario, unite al succedersi frenetico di ministri tecnici e addirittura di un governo di professori, non sono riuscite a far superare a un ateneo della penisola la fatidica soglia 200. Veniamo superati da Sud Africa, Turchia, Corea del Sud e Israele.

Il Times Higher Education World University (The) è stato pubblicato per la prima volta nel 2004 con la collaborazione di Quacquarelli-Symonds (QS), che dal 2009 elabora altri ranking. Dal 2010 il The ha istituito una collaborazione con Thomson Reuters (società nata dalla fusione tra Thomson colosso canadese dell’informazione finanziaria e l’agenzia giornalistica inglese Reuters).

Le classifiche The escludono le istituzioni che non insegnano a studenti universitari o che sono altamente specializzate e hanno prodotto meno di 1.000 pubblicazioni censite su Web of Science negli ultimi 5 anni a un ritmo di almeno 200 per anno. La graduatoria finale è il risultato di un calcolo complesso, che prende in considerazione 13 indicatori semplici che misurano: i finanziamenti provenienti dall’industria in rapporto al numero dei docenti; l’internazionalità, ossia, i rapporti dei docenti con studenti stranieri e le pubblicazioni nate da collaborazioni con colleghi di altri paesi; la didattica, che pesa per il 30%, misurata in base al numero di studenti, dottorati e laureati per docente, nonché ai finanziamenti pro-capite ottenuti dagli stessi insegnanti; l’attività di ricerca (che pesa per il 60%) per volume dei finanziamenti ricevuti, risultati di ricerca, numero di pubblicazioni rapportato allo staff accademico; l’impatto citazionale delle pubblicazioni prodotte dall’ateneo.

Le principali critiche che vengono rivolte al ranking The che – va ricordato, prende in considerazione solo il 3% degli atenei mondiali – sono dovute al massiccio utilizzo di indagini statistiche e alla instabilità delle classifiche, a causa di frequenti variazioni nella metodologia di calcolo.

Sia come sia, anche questa classificazione colloca ai primi posti le università americane e anglosassoni. Number one nel World Reputation Ranking è Harvard, con un valore di riferimento di 100/100, seguita dal Mit e da Stanford. Cambridge è al 4° posto, Oxford al 7°. Fra le asiatiche la prima è Tokyo al 11°, mentre terzo tra gli atenei europei risulta, al 16° posto, lo Swiss Federal Institute of Tecnology di Zurigo.

Nella classifica The, che tiene conto di tutti gli indicatori, prima tra le università italiane è l’Università di Trento, al 221° posto, grazie al suo livello di internazionalizzazione con una significativa offerta di dottorati in inglese e la presenza di illustri docenti come Mikhail Gorbaciov e il Dalai Lama.

A seguire vi sono: 235 Milano-Bicocca, 243Trieste, 245 Torino, 267 Pavia, addirittura 278 la gloriosa Bologna, 289 la Statale di Milano e 292° il Politecnico meneghino. La Sapienza, che risulta 333, viene superata nell’ordine da Padova, Pisa e dall’Università del Salento.

Il gruppone di coda è costituito, invece, dall’Ateneo Aldo Moro di Bari al 351°, dall’Università di Ferrara 357 e da quella di Firenze, al 358° posto.

Certo non tutto è fermo. La Bicocca, ad esempio, migliora grazie all’eccellenza dei suoi programmi internazionali e al migliore livello di ricerca d’Italia. Retrocede, invece, l’Università Statale di Milano, soprattutto a causa della non buona performance didattica: troppi studenti pochi professori.

Ma il tallone d’Achille del sistema universitario italiano risulta essere la ricerca, che consegue valutazioni molto basse. La Sapienza di Roma è quella che, pur raggiungendo il ranking più alto, seguita dal Politecnico di Milano e dalla Bicocca, si colloca allo stesso livello delle peggiori università dell’Uk e della Germania, ma i risultati ottenuti sono risibili al confronto con quelli delle università Brasiliane e Iraniane.

Allo scarso livello della ricerca universitaria consegue un basso tasso di internazionalizzazione. Finanche le università dell’Arabia Saudita e della Colombia risultano più attrattive dell’università italiana sia per gli studenti  che per gli studiosi di altri paesi, che difficilmente scelgono di collaborare nelle ricerche con gli italiani.

Unico paese europeo ad avere una situazione al pari dell’Italia è la Spagna, nonostante l’Università Pompeu Fabra di Barcellona si collochi al 164°posto.

Sorprendenti i risultati della Svizzera, unico paese europeo oltre alla Gran Bretagna che ha ben tre atenei nelle prime quaranta posizioni. Mentre stupiscono, in negativo, i risultati della Germania, che compare solo al 55° posto con l’Università Ludvig-Maximillians di Monaco e della Francia, che consegue il primo risultato utile solo al 65° con l’Ècole Normal Supérieure. Una situazione che ritroviamo con poche differenze nelle diverse classificazioni delle università esistenti, ognuna condotta con metodologie e scopi diversi, delle quali forse la più completa resta, la più antica pubblicata dal 2003, l’Academic Ranking of World Universities (Arwu).

E’ Redatta a cura del Center for World-Class Universities (Cwcu) della Shanghai Jiao Tong University, con l’obiettivo di individuare i 500 migliori atenei nel mondo sia in termini generali che per campo scientifico, tenendo conto delle pubblicazioni censite nello Science Citation Index-Expanded (Scie) e nel Social Science Citation Index (Ssci); della presenza negli atenei di premi Nobel, medaglie Fields, ricercatori altamente citati e pubblicazioni sulle riviste di Nature e Science; della qualità dell’istruzione sulla base del rapporto tra numero dei docenti e numero degli studenti; della qualità dei docenti; dei prodotti della ricerca; del livello delle citazioni.

Ulteriori ranking invece si focalizzano soltanto sulla misurazione della performance di ricerca. Tra di essi spiccano il Leiden ranking e lo SCImago institutions ranking (Sir). La mappatura degli atenei è più completa ma non esaustiva, soprattutto per il Leiden ranking, il quale pone l’attenzione sulle “migliori” università. Entrambi stilano la classifica basandosi esclusivamente  su dati bibliometrici. A cavallo tra queste due tipologie è possibile identificare il Taiwan Higher Education Accreditation Evaluation Council (Heeact), il quale analizza soltanto la dimensione della ricerca.

Sono presenti ulteriori classifiche, che si basano semplicemente sulla visibilità degli atenei nel web, come ad esempio quello promosso da Webometrics, che mappa tutte le università del mondo con degli indicatori di visibilità.

Infine, per il 2014 sono attesi i risultati di  un progetto europeo, condotto dal Cherpa (Consortium for Higher Education and Research Performance Assessment), per la costruzione dell’European Multidimensional Global University Ranking (U-Multiranking), con lo scopo di creare una mappatura multidimensionale delle università europee. Le dimensioni incluse sono, oltre alla didattica e alla ricerca, anche il trasferimento tecnologico e l’orientamento internazionale.

Tuttavia, ove si vadano a spulciare le diverse classificazioni, i risultati cambiano di poco per l’università italiana ed europea, ad eccezione di quella anglosassone. Una conferma della debolezza delle politiche europee su università e ricerca e, per l’Italia, della necessità di cancellare i tanti provvedimenti illogici e controproducenti degli ultimi anni, per cominciare a lavorare e investire davvero per lo sviluppo di un’istruzione di terzo livello trasparente, aperta e democratica All’insegna delle pari opportunità, per docenti e discenti.

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