Il lavoro che non c’è uccide ancora

ROMA – Ad oggi sono 37 i suicidi che si sono consumati in Italia dall’inizio di questo 2015. Suicidi tutti strettamente legati alla crisi, a problemi economici, a mancanza o perdita del lavoro. 

“Rimini: 42enne senzatetto si suicida impiccandosi alla stazione, era domiciliato presso la Caritas

Alcamo. Chiude l’azienda per problemi economici, padre di famiglia si suicida

Casale Monferrato. Imprenditore edile 54enne si suicida nel capannone della sua ditta… “(Fonte CrisItaly)

Questi sono solo alcuni dei titoli di cronaca apparsi di recente sul web, ma si potrebbe andare tranquillamente avanti trovandone tanti altri, tutti simili e sempre con le stesse motivazioni: problemi economici. Oppure si potrebbe andare a ritroso negli anni e continuare a snocciolare i numeri o i nomi di tutti coloro che si sono tolti la vita nel 2014, nel 2013 e poi nel 2012 e ancora nel 2011 e così via … e quasi sempre per la stessa ragione: problemi economici dettati da una crisi epocale. 

E pensare che il nostro premier  ha recentemente tuonato contro l’atteggiamento disfattista di chi sostiene che gli italiani si stiano impoverendo.  In una sua distorta interpretazione della realtà ha dichiarato, con enfasi e convinzione: “Le famiglie si stanno paradossalmente arricchendo…”  

E’ di pochi giorni fa la diffusione dello studio sui suicidi legati alla perdita del lavoro, elaborato dalla prestigiosa rivista scientifica americana Lancet e  condotto in collaborazione con il sociologo svizzero Carl Nordt del Dipartimento di Psichiatria dell’Università di Zurigo. I dati fanno rabbrividire. Si parla di 45 mila morti all’anno, su 63 paesi presi in considerazione nello studio.  Suicidi tutti legati al perdurare della crisi economica. 

Buona parte della popolazione mondiale non è stata inclusa nella ricerca. Paesi come India e Cina non sono infatti stati esaminati. In Italia, secondo Lancet, sarebbero circa 900 i casi di suicidi annui, ovvero 1,7 casi per 100 mila abitanti. Sono tanti, troppi, anche se alcuni paesi come la Lituania riportano percentuali 10 volte superiori. Lo studio non rileva particolari sbalzi ed oscillazioni di percentuali legati ai periodi peggiori della recessione, ma questo dato di stabilità, in considerazione di numeri tanto elevati, non è comunque rassicurante. Sostanzialmente l’elemento fondamentale che emerge, infatti, è che la crisi economica continua ad uccidere. La crisi ha indubbiamente rotto equilibri sociali cancellando la dignità delle persone.

Certo è che anche i dati che emergono dallo studio diffuso ieri dal Cerved, relativi ai fallimenti delle imprese in Italia dall’inizio del 2008 ad oggi, non sono altrettanto confortanti o di buon auspicio, considerando che ad ogni chiusura d’impresa corrisponde inevitabilmente una emorragia occupazionale. Sono 82.000 le imprese che hanno chiuso dall’inizio della crisi, 1 milione i posti di lavoro persi, con un picco nel 2013 quando 176mila lavoratori hanno perso il loro posto.  I dati del 2014 sembrano migliori  rispetto all’anno precedente  (175 mila posti; -0,5%) in quanto si è ridotta la dimensione media delle imprese che hanno portato i libri in tribunale. I posti di lavoro persi sono comunque più che raddoppiati rispetto al 2008: un incremento percentuale del 136 per cento.  

Insomma, nel complesso la situazione è drammatica, ma troppo spesso questo fenomeno viene ignorato e sottostimato, quasi si volesse nascondere una realtà scomoda, nonostante lo studio riportato da Lancet confermi che l’aumento del 20-30% di rischio di suicidio, in qualunque parte del mondo, risulta associato al fenomeno della disoccupazione e alle paure legate ai profondi cambiamenti economici. Sta di fatto che l’incertezza e la precarietà economica rappresentano i veri nemici della psiche umana, fin tanto che questo modello economico sarà imperante con i suoi effetti corrosivi della personalità. Se pensiamo alla disoccupazione, ma anche al lavoro flessibile, alla precarietà, viene in mente un concetto espresso dal noto sociologo Richard Sennet, nel libro “L’uomo flessibile” e che viene sinteticamente racchiuso in una unica domanda, quella che ogni individuo tagliato fuori dal sistema produttivo inevitabilmente si pone: “Chi ha bisogno di me?”.

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