Cina. Principale protagonista dei dolori e delle pene dell’economia mondiale

ROMA – Mentre il mondo appare impotente di fronte alla catastrofe nucleare giapponese, regolarmente la Cina appare come l’attore principale dei dolori e delle pene dell’economia mondiale.

Eppure questo colosso governato dal 1945 da un partito chiamato comunista é oggettivamente il pilastro che ha impedito nelle ripetute crisi economiche, dalla caduta del muro di Berlino, il fallimento delle finanze di nazioni come gli USA, Indonesia ed Argentina. Per coloro che si sono nutriti della propaganda anticomunista della destra mondiale ciò appare un paradosso difficile da digerire e il mantra propagandato é che le economia cinese sia un capitalismo statalizzato, che é una vera aporia economico-sociale. Basterebbe rileggere Marx per comprendere che la Cina rappresenta il laboratorio della trasformazione di un economia pianificata a bassa intensità di capitale in una economia industriale ad alta intensità di capitale, ove la proprietà privata é lasciata libera da vincoli socio-politici al fine di esprimere tutta la sua forza propulsiva ed accumulatrice di ricchezza patrimoniale.
Una nazione di un miliardo e trecento milioni d’abitanti per poter mantenere la coesione sociale é obbligata ad una crescita del proprio PIL non inferiore all’8% ed alla creazione di una classe ricca che rappresenti almeno il 15% della popolazione, ossia almeno 200 milioni di persone, almeno due volte e mezzo il numero dei ricchi attualmente esistenti sul pianeta. Sono numeri impressionanti che solo una gestione dirigista di governo può gestire in un contesto internazionale, ove la forma più avanzata  (regime parlamentare a suffragio universale) risale al 1700, ossia un epoca proto-industriale con una popolazione mondiale che a stento raggiungeva gli 800 milioni d’individui. Inoltre il presupposto per la riuscita del governo é l’esistenza di una classe media produttiva che copra almeno il 35-40% della popolazione che permetta la continua crescita della classe più ricca e dinamica dal profilo imprenditoriale della società.

In Cina queste condizioni sono state garantite finora dallo sviluppo industriale manifatturiero e delle infrastrutture energetiche, di mobilità ed abitative. Lo sviluppo industriale capitalistico sarebbe stato impensabile senza la nascita delle strade ferrate e delle centrali a carbone ed olio combustibile e successivamente idroelettriche. Ma tutto ciò é solo una condizione necessaria perché senza il parallelo sviluppo d’infrastrutture di servizi sociali (scuole ed ospedali in primis) sarebbe destinato al fallimento come hanno dimostrato tutte le esperienze d’industrializzazione nell’Africa coloniale. Un binomio (industria e servizi) che Marx aveva sottolineato come essere il motore d’espansione e di successo del capitalismo nella creazione della forza-lavoro salariata e nel mantenimento della classe borghese.

La Cina del 1945 non aveva alcun condizione per divenire un paese a capitalismo industriale se non attraverso una politica economica pianificata che convertisse obtorto collo masse contadine in salariati. Un operazione che costò milioni di vite innocenti producendo solo l’uscita dallo stato di sussistenza di almeno il 70% della popolazione, senza però creare i presupposti per la nascita della classe media borghese. Un fallimento che il successore di Mao, Den Xiao Ping, affrontò alla radice con la parola d’ordine “Arricchitevi”. Oggi in Cina vivono 115 stramiliardiari (statistiche 2010 di Forbes), secondo paese al mondo dopo gli USA, con una ricchezza complessiva di 230 miliardi di dollari che rappresenta il 2,33% della ricchezza nazionale contro il 10,39% degli USA, il 3,53% dell’Italia e il 19,43% della Russia. Ciò significa che la distribuzione del reddito é molto più equilibrata che in Italia ma sopratutto ben lontana alle sperequazione statunitense e della Russia che é il colosso del post-comunismo, ossia lo stato più importante che, al contrario della Cina, ha ripudiato il sistema marxista-leninista d’economia. Questo significa che il modello inaugurato da Deng Xiao Ping ha cercato con successo d’impedire il noto fenomeno della polarizzazione della ricchezza nel periodo di grande crescita accumulativa del capitale. Questo successo però é largamente mortificato dall’assenza di un’universale rete di sicurezza sociale come dimostra la recente indagine pubblicata sul Quotidiano del Popolo, organo ufficiale del PC cinese e quotidiano più diffuso in Cina che mostra che solo il 6% dei cinesi si dichiara felice (ossia poco più di 80 milioni d’esseri umani). Ma la cosa più interessante é che il malcontento non si traduce in un azione politica antigovernativa come sta avvenendo nel Nord Africa e nei paesi feudali a maggioranza islamica.

Spiega il sociologo Jean-loius Rocca dell’Università Tsinghua di Pechino:” Non immagino i Cinesi giocare ai martiri e morire per la rivoluzione. Le manifestazioni sono sempre la conseguenza di problemi particolari come le espropriazioni [di terre e di beni fatte dallo Stato ndt] e la corruzione [dei funzionari di stato e del partito ndt]. Mai questi movimenti si sono trasferiti sul piano politico. Le figure della dissidenza come Liu Xiaobo, premio Nobel per la Pace [tanto decantate in Occidente], sono molto minoritarie. Senza essere provocatore, direi che i Cinesi sono piuttosto soddisfatti della loro [attuale ndt] condizione”. In altre parole in Cina la situazione politica (ossia il crollo del totalitarismo) avverrà quando la percentuale dei felici aumenterà considerevolmente. E dirigenti del PC cinese ne sono perfettamente consapevoli al pari del re del Marocco, Maometto VI. Il sovrano filooccidentale ha varato una riforma costituzionale, figlia della nostra Costituzione, per farla ratificare con un referendum  con l’obiettivo d’evitare una imminente rivoluzione nel suo paese, ossia ha fatto lui la rivoluzione istituzionale togliendosi il potere assoluto e dando il potere alle assemblee parlamentari e sancendo la divisione dei poteri secondo la lezione di Montesquieu, e che i nostri padri costituenti seguirono alla lettera.

Immagino lo stupore di tanti soloni e pseudoanalisti italiani che vanno cianciando che le rivoluzioni in atto sono frutto della fame e dell’aumento dei prezzi. Non pretendo che si studino Marx (intendo il filosofo di Treviri e non gli straordinari comici statunitensi degli anni 30), che più di 150 anni fa spiegava che le rivoluzioni sono possibili solo quando lo sviluppo socio-economico é al suo apogeo, ma di leggersi uno dei nostri più autorevoli all’estero storici liberali anti-comunisti (ma che non disdegna le categorie marxiane per capire la dinamica degli eventi storici), il professore Pietro Melograni, uno dei professori del 1994 eletti in Forza Italia, rapidamente isolato da Berlusconi e dalla sua cricca, proprio per le sue idee liberali. Egli con il suo accattivante stile dimostra come tutte le grandi rivoluzioni della storia si sono manifestate quando le cose andavano molto meglio che nel passato. E confondere le  rivolte e i moti popolari con le rivoluzioni equivale a confondere il consenso con la piaggeria. La Cina in conclusione sarà probabilmente il motore della trasformazione radicale della società umana, nostro dovere é indirizzarla verso una società più giusta e rispettosa dell’ambiente, attributi assenti in Cina ma non meno che nelle nostre società.

Condividi sui social

Articoli correlati

Università

Poesia

Note fuori le righe