L’Aquila, quale ricostruzione? La galleria fotografica

L’AQUILA – Colpisce il silenzio, tra i palazzi e le case, come reduci feriti e abbandonati dopo una guerra lampo. E un’immobilità surreale.

Nel cuore della città, nella zona rossa e lungo via XX settembre, le parti più colpite dal sisma del 6 aprile 2009, le attività di ricostruzione sembrano ferme. In quello che è stato definito il cantiere più grande d’Europa sono pochi gli operai edili e le ditte all’opera. Chi c’è, dall’alto dei ponteggi, mi guarda senza stupirsi troppo perché a percorrere quei vicoli e quelle piazze oramai sono solo giornalisti e qualche curioso che il tour cittadino tra i palazzi sventrati non vuol perderselo. Gli aquilani, che in quelle case e in quelle vie ci hanno lasciato vita, ricordi, radici, lì non ci passano più.
Il cinema del centro ha ancora affissa fuori una locandina sbiadita del film di Pupi Avati “Gli amici del bar Margherita”.  A scandire il tempo, a ricordare un prima e un dopo, come l’orologio alla stazione centrale di Bologna, segnando l’ora della strage, ha fatto per oltre vent’anni.
E tutto appare così, quasi fermo a quella notte, come in un grande stand by collettivo. Corso Vittorio Emanuele, la via dell’incontro cittadino, è transennato e guardato a vista da camionette dell’esercito che presidiano quel che resta. Una di queste passa mentre mi fermo a leggere i messaggi dei cittadini, appesi come preghiere, nei fogli che tappezzano metri di transenne. C’è il dolore e anche la speranza, ma soprattutto colpisce in quelle parole la forza testarda e fiera di un popolo che non si arrende e che la città la rivuole bella com’era. Rivuole il centro e le sue piazze, rivuole le chiese e tutto il patrimonio culturale che l’ha fatta grande. Vuole, quindi, che il centro si torni ad abitarlo presto.

I fatti però sono lontani da questo desiderio: le attività commerciali si sono spostate in quartieri più periferici della città, chi ha provato a restare già pochi mesi dopo il terremoto ha dovuto arrendersi alle maglie strette della burocrazia, ad un progetto di sviluppo che, rispondendo sì all’emergenza che la tragedia ha imposto in tutta la sua drammaticità, ha trascurato di individuare una soluzione che garantisse la conservazione di ruolo e funzioni, sociali ed economiche, al centro cittadino.
Bruno Basile, prima del sisma, era proprietario del negozio “Ottica Centrale” in piazza Duomo ed ex vicepresidente della Confesercenti aquilana. Oggi ha riaperto la sua attività in uno dei tanti capannoni industriali resi centri commerciali all’occorrenza e racconta con amarezza i tentativi vani, fatti insieme ad altri commercianti del centro, affinché con un sistema di investimenti serio si potesse guardare realmente all’interesse collettivo della città. “Viviamo in una situazione surreale. Le attività commerciali non hanno percepito un centesimo di indennizzo, eccetto la regalia dei 2.400 euro come integrazione al reddito – 800 euro per tre mesi -; per il resto, solo chi ha potuto riaprire con le proprie forze lo ha fatto, ma circa 400 attività del centro storico sono chiuse da quella notte. Nel mio negozio del centro, non danneggiato,  ci sono tornato dopo tre mesi da abusivo ma per poco. Permettere a me e ad una decina di commercianti nelle stesse condizioni di riaprire, avrebbe significato ridare una funzione seppur minimale alla zona. Farlo oggi, dopo tutto questo tempo, sarebbe un’operazione inutile dal punto di vista commerciale ma anche sociologico”. Perché non si è fatto, gli chiedo, e la risposta è di quelle che lascia turbati.  É mancata una visione lucida e progettuale – secondo Basile – e per alcuni quella ‘non-scelta’ è stata motivo di speculazione finanziaria più che edilizia. Riferendosi alla notizia circolata di investitori che stanno acquistando porzioni di centro senza alcun piano di ricostruzione. “È sotto i nostri occhi ormai un connubio a tutti gli effetti mafioso tra politica e malaffare. E non mi riferisco solo alle questioni di cui si stanno occupando le Procure in questi mesi (quella di Napoli sulla presenza dei casalesi e quella di Reggio Calabria che indaga su un filone che conduce a contatti tra ‘ndrangheta e imprenditori aquilani. ndr.) ma a un atteggiamento mafioso locale che tradotto vuol dire approfittare di questa opportunità per esclusivi vantaggi soggettivi. A questo la Magistratura sembra non essere ancora interessata”, dice infine.

Su traffici e malaffare nel post sisma, che sono la cifra dell’atteggiamento mafioso locale a cui fa riferimento Basile, “Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie” ha distribuito nelle scorse settimane un dossier in 40mila copie. Dall’affare bagni chimici – 3600 nelle 171 tendopoli costati 8 milioni al mese – al problema dello smaltimento delle macerie fino al capitolo relativo ai subappalti non autorizzati, il lavoro di Libera ha puntato un faro sulle dinamiche di gestione dell’emergenza come su quelle della ricostruzione. Dinamiche finite sotto la lente della Dia, la direzione nazionale antimafia.
Anche la scelta di puntellare tutto il possibile, compreso quello che verrà certamente abbattuto perché difficile da recuperare, ha sollevato polemiche in quella cittadinanza accorta che certe cose proprio non se le spiega, si indigna e chiede perché si vogliano tenere in piedi i mattoni di una città fantasma invece di adoperarsi per una ricostruzione effettiva.

 

Tra i soldi messi a disposizione dal Governo, per la fase emergenziale e per la ricostruzione, quasi 14 miliardi per il periodo 2009-2012, ci sono anche quelli per i puntellamenti in gran parte del centro storico, nelle facciate esterne dei palazzi come negli androni. Operazioni fatte senza alcuna gara d’appalto. Il sospetto che pesci grandi abbiano mangiato pesci più piccoli del settore edile abruzzese è forte nella gente con cui ho modo di parlare. “Nell’immediatezza del disastro, che tutto ha divorato in soli 23 secondi, le ditte del posto si sono adoperate anticipando per lungo tempo soldi che, chiaramente, non erano ancora stati stanziati. Hanno risposto all’emergenza ed oggi sono in affanno. Chi lavora adesso arriva da fuori: sono realtà più grandi e più economicamente solide.  Anche le strutture alberghiere sono al collasso: lo Stato è debitore di 600-700 mila euro con alcune di esse che si ritrovano ad anticipare moltissimi soldi ormai da quattro mesi”, dice Vanessa, operatrice turistica aquilana che in uno dei tanti alberghi sulla costa ci ha vissuto come circa 35mila abruzzesi per circa un anno.

Arrivo a Coppito, frazione a 5 km da l’Aquila, a mezzogiorno. Anche lì, in una delle venti new town del progetto C.a.s.e costruite come quartieri satelliti alla periferia della città non c’è vita. Ci resto un po’ in attesa di veder qualcuno e quello a cui penso è che in quei luoghi sarà davvero difficile riattivare un rapporto storico e culturale con il territorio, e che il rischio che diventino urbanistica permanente piuttosto che di emergenza è alto. Il progetto cantierizzato dal Governo per togliere dalla costa i terremotati conta 4500 alloggi di 60/70 mq circa. Ne frattempo, però, le riparazioni degli immobili languono impastoiate nelle lentezze di una burocrazia che va per gradi e che coinvolge lo Stato come il Dipartimento di protezione civile e gli enti locali; dopo la presentazione delle perizie di agibilità, ci son voluti in media 14 mesi perché qualcuno dei proprietari di appartamenti classificati come ‘B’ – non troppo danneggiati – potessero rientrare nelle loro case, ma in generale i cantieri per le case A, B, e C sono in gran parte non ultimati. Del tutto bloccati i lavori di quelli ‘E’, i più compromessi. Perché quel che manca è una legge organica per la ricostruzione. E per averla, dicono Comuni e Regione, bisognerà attendere. La percezione è che gli inverni saranno tanti nelle new town come nei moduli abitativi provvisori  e la speranza e che l’Aquila non diventi una nuova Irpinia.

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