Marcinelle, sessant’anni fa. Era l’8 agosto 1956 quando 262 minatori, di cui 136 italiani, rimasero intrappolati all’interno della miniera di Marcinelle, morendo in maniera atroce e segnando una delle più gravi stragi sul lavoro di tutti i tempi.
Marcinelle, per non dimenticare. Per non dimenticare, innanzitutto, che anche noi siamo stati un popolo di migranti. Per non dimenticare che anche noi abbiamo lasciato le nostre campagne, la nostra fame, la nostra miseria e la nostra mancanza di prospettive in cerca di un avvenire migliore per i nostri figli e per le nostre famiglie. Per non dimenticare, ogni volta che sentiamo qualche latrato razzista del ciarlatano di turno, che anche noi abbiamo subito discriminazioni atroci, come ad esempio i cartelli esposti all’esterno di alcuni negozi con su scritto: “Vietato l’ingresso ai cani e agli italiani”. Per non dimenticare, perché quella strage ci appartiene: appartiene alla nostra storia, sulla nostra cultura, ai nostri lutti e alla nostra memoria, che abbiamo il dovere di tenere viva e di trasmettere alle giovani generazioni.
Marcinelle per interrogarci sulla dignità dell’uomo e del lavoro, in una stagione nella quale entrambi i concetti non sembrano essere di moda, fra leggi ingiuste, strappi, forzature, imposizioni e il vergognoso cedimento delle sinistre al liberismo selvaggio che, non potendo più svalutare la moneta, ci ha chiesto espressamente di svalutare il lavoro, rivalutando, di fatto, la schiavitù.
Marcinelle perché quella tragedia potrebbe accadere anche oggi e illuderci di essere ormai immuni, di fronte ai dati allarmanti in merito alle morti sul lavoro, significa porre le basi affinché si ripeta, magari non in una miniera di carbone ma in qualunque altro luogo dove dei poveri cristi si guadagnano il pane lavorando in condizioni disumane.
Marcinelle come monito per tutti affinché nessuno, al cospetto degli immigrati che raccolgono i pomodori nelle campagne pugliesi, rischiando la vita per pochi euro l’ora, perda di vista che gli africani di oggi erano gli italiani di ieri, con l’auspicio che i portatori insani del germe del razzismo sentano addosso la vergogna per la sporcizia morale che li caratterizza.
Marcinelle, nella speranza che tutta l’Europa ricordi quel disastro e comprenda la necessità di dotarsi di una legislazione sul lavoro sostanzialmente uniforme e, naturalmente, basata sui più elevati standard di civiltà e di diritto, tenendo alla larga i caporali e i padroni delle ferriere che, invece, stanno tornando in auge, approfittando della crisi per imporre la legge del più forte.
Marcinelle, sognando che la si smetta di parlare di mercato del lavoro, in quanto già quest’espressione sottintende che l’essere umano è un oggetto, una merce, un qualcosa che si può comprare e vendere e non una persona dotata di diritti inalienabili, primi fra tutti quello alla vita e a condizioni di impiego dignitose.
Marcinelle e il grido di quegli uomini che morirono urlando la propria disperazione, cercando in tutti i modi di fuggire da quell’inferno senza ritorno con negli occhi le immagini degli innumerevoli sacrifici che avevano compiuto per conquistarsi quell’angolo di miseria e alienazione.
Marcinelle, alla ricerca della dignità dell’uomo e del senso della politica, della produzione, dello sviluppo equo e sostenibile, del futuro e delle comuni radici di un’Europa che purtroppo, va riconosciuto, si è costituita pure sul sangue e sullo strazio di quei 262 minatori inghiottiti dalle fiamme e dalla malvagità di chi offriva loro il pane sporco di un lavoro senza adeguate garanzie di sicurezza.
Marcinelle, sessant’anni dopo, affinché quel grido risuoni nelle orecchie di tutti noi e si conficchi nelle menti di quei governanti che stanno assassinando per la seconda volta quei 262 martiri, infliggendo ai loro eredi legislazioni che ricordano più il Brasile delle piantagioni di caffè o il sud degli Stati Uniti di inizio Ottocento che il piano Beveridge e il modello sociale scandinavo che ha fatto la fortuna dell’Europa del dopoguerra.
Marcinelle, perché il ricordo di quegli uomini metta da parte la retorica e lasci spazio all’impegno, affinché il lavoro torni ad essere considerato l’elemento essenziale per la costruzione di una vita degna di questo nome e per la ricostruzione di un tessuto sociale devastato da troppi anni di crisi economica e risposte politiche sbagliate.
Marcinelle, la memoria e il futuro, sentendoci tutti figli e fratelli delle vittime di allora, di oggi e di sempre e battendoci affinché il “mai più” che viene spesso scandito in questi casi smetta di essere una semplice speranza e si trasformi in una prospettiva concreta per la nostra società.