Mio fratello Che Guevara. Intervista a Juan Martín Guevara de la Serna

Il 9 ottobre saranno trascorsi 50 anni dalla morte di Ernesto Che Guevara. La sua figura, imponente negli anni della rivoluzione cubana, è diventata dopo la sua morte in Bolivia un mito planetario per milioni di giovani e militanti.

Per ricordarlo abbiamo approfittato della visita in Italia del fratello minore, Juan Martin, ospite di Lab 80 di Bergamo per presentare il libro scritto con la giornalista francese Armelle Vincent, “Mon frère, le Che”. Juan Martin, l’ultimo dei fratelli Guevara de la Serna, ci racconta di suo fratello, della loro vita in famiglia e degli anni della sua militanza, con estrema precisione e lucidità, dilungandosi con letture e aneddoti, senza cadere nel rischio di fermarsi a rimestare nel ricordo ma pronto a guardare al presente, alle necessarie lotte politiche e a proiettarsi nel futuro. 

L’intervista a Juan Martin Guevara, in una versione più estesa, è inserita nel libro, uscito in questi giorni per Nova Delphi Libri “Io e il Che” nella collana Vientos del Sur; un racconto della vita e del pensiero del politico, teorico e guerrigliero argentino-cubano fatto attraverso 25 interviste a uomini e donne del mondo della cultura o militanti politici e sociali che lo hanno conosciuto o incrociato nel loro lavoro.

Proviamo solo ad immaginare quante volte ti avranno chiesto di tuo fratello Ernesto e hai dovuto raccontare le stesse cose e ripetere gli stessi concetti

Se sto parlando di Ernesto, dei miei ricordi, è una mia scelta. Sono in giro in Europa, e qui da voi in Italia per questo motivo. Se le domande sono le stesse e le risposte simili, la gente che ascolta o che legge è sempre diversa, quindi va benissimo parlare, raccontare, anche a costo di ripetersi. 

E allora raccontaci qualche ricordo di Ernesto in famiglia.

Intanto uno dei miei primi ricordi nitidi del Che è quando studiava di notte. Lo ricordo bene anche se ero molto piccolo. Poi i regali, quando andava in giro tornava sempre con qualcosa per me e gli altri fratelli. L’ultima volta che tutta la famiglia si riunì con Ernesto fu quando lui andò a Punta del Este, in Uruguay, per una Conferenza internazionale in rappresentanza del governo rivoluzionario cubano. Ho un ricordo molto bello. Lui regalò a nostra madre il suo libro “Guerra de guerrilla” con questa dedica: “Vecchia: Affinché il tuo spirito guerrigliero, sempre stretto tra figli, convenzioni sociali, ristrettezze economiche, faccia la sua “turné” nei cammini dell’epica passata e futura, quella dell’ultima grande guerra di liberazione che vedrà il mondo, con affetto tuo figlio. Che”.

Cosa farebbe in questa fase storica il Che se nell’ottobre del 1967 non fosse finita così come sappiamo?

Non è possibile immaginare Ernesto senza la politica, l’ideologia e la lotta di liberazione. Tutta la sua crescita e le sue decisioni strategiche ne sono state segnate. Quando mi domandate dove sarebbe oggi, rispondo sempre che se non fosse stato assassinato in Bolivia, l’America latina sarebbe libera, sovrana, indipendente e socialista. Ernesto non avrebbe mai lasciato la lotta.

Torniamo a quell’ottobre del 1967. Tu, fratello del Che, cosa ricordi di aver provato in quei momenti?

Dentro di me ho sentito che era la sconfitta di un progetto rivoluzionario latinoamericano e allo stesso tempo la morte di mio fratello. Due sconfitte insieme: il dolore per la morte di un fratello ucciso e la frustrazione perché si era infranta una grande possibilità per tanti giovani rivoluzionari. Ci è voluto tempo per capire cosa era accaduto realmente in quella zona sperduta della Bolivia, per capire cosa avrebbe significato la loro vittoria.

Il Che ha scritto molto. Lo ha fatto con pagine profondissime, lettere rivolte a vostra madre e a voi tutti. Da quelle lettere credo traspaia quanto il Che vivesse fino in fondo le cose che poi comunicava. Quel “ricordatevi di tanto in tanto di questo piccolo condottiero del ventesimo secolo” e quello che accadde poco tempo dopo sono cose che non si possono dimenticare.

Nella lettera che tu citi c’è molto di europeo. Ernesto inizia parlando di Ronzinante, lui è don Chisciotte. Poi parla di un condottiero, come fosse Garibaldi. Sono stato a Vallegrande e anche alla Quebrada del Yuro, e mi sono chiesto: “Cosa ci faceva qui? Che senso aveva?” Conoscere i motivi di fondo è difficile, e penso che nessuno abbia mai veramente approfondito la questione, inoltre ormai sarebbe ancora più complicato perché molti dati sono andati perduti. Al Che furono tagliate le mani, come si sa, per permettere alla polizia federale argentina il riconoscimento del cadavere. Victor Zanner Valenzuela fu incaricato dal ministro dell’Interno boliviano, Antonio Arguedas, di spedire a Cuba il microfilm del suo diario, e credo che ciò basti a dimostrare l’esistenza di un vincolo con il governo cubano, un vincolo diretto. Quando vengono mostrate al mondo, come fossero un trofeo, le foto di Che Guevara prigioniero, a diffonderle sarà la CIA, che dimostrò così di avere partecipato alla cattura. 

Nonostante l’esempio del Che e dei tanti giovani che hanno creduto in un avvenire diverso, l’America latina è ancora oggi segnata da pesanti ingiustizie. Credi che i popoli dimentichino? Il cambiamento fatica ad avanzare?

Come dicevo, la sconfitta del Che nel 1967 non è stata una cosa da poco. In Argentina, la speranza di un cambiamento possibile è stata sconfitta nel 1973. E non lo dico solo per i 30.000 desaparacidos, i 10.000 incarcerati e torturati o le altre decine di migliaia di esiliati, ma soprattutto per il terrore insinuatosi nelle vene della società. È vero, in America latina abbiamo esempi luminosi, come il Che, Bolívar o San Martín. E così come loro non hanno ottenuto quella libertà, indipendenza e sovranità cui aspiravano, ancora meno noi siamo riusciti a costruire un sistema sociale dignitoso. Abbiamo un esempio diverso, possibile e reale: Cuba. Con tutti i problemi che ha avuto e che ha, Cuba è stato l’unico paese dove si è cercato di costruire un sistema sociale più giusto, e che ha resistito a un durissimo embargo durato decenni. E su Cuba voglio aggiungere una cosa: credo che il nostro dovere, la nostra responsabilità, non sia criticare e dire cosa non funziona lì, ma pensare a come fare la nostra rivoluzione.

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